Faq

Un fondo rustico appartenente a più proprietari è stato concesso in affitto senza le associazioni di categoria e, prima della sua scadenza, un proprietario viene a mancare e gli succedono gli eredi che, però, non sono favorevoli a continuare il rapporto. Il conduttore può richiedere la proroga del contratto all’Agenzia delle Entrate anche senza avere il consenso di tutti i proprietari?

Il contratto di affitto di fondo rustico in deroga, così come recita l’art. 45 della Legge n. 203/1985, è valido e produttivo di effetti giuridici solo qualora sia stipulato dalle parti alla presenza delle rispettive organizzazioni professionali di categoria che lo debbono anche sottoscrivere.

Qualora sia rispettata tale condizione sine qua non, nel contratto le parti possono derogare alla durata minima legale che in materia di affitto di fondo rustico è pari a quindici anni.

Qualora il contratto “in deroga” non sia stato sottoscritto dalle rispettive organizzazioni professionali di categoria, torna invece ad essere operativo l’art. 1 della Legge n. 203/1982, che prevede che il rapporto contrattuale non possa avere una durata inferiore ai quindici anni.

Ne consegue che la parte interessata a far accertare la mancata assistenza e sottoscrizione del contratto in deroga da parte delle rispettive organizzazioni professionali di categoria non sia tenuta a chiedere la proroga dell’originario contratto di affitto di fondo rustico, dal momento che la norma sopra citata opera in automatico.

La ratio si rinviene nel fatto che le norme sui contratti agrari sono inderogabili ai sensi dell’art. 58 della Legge n. 203/1982 ed un eventuale violazione delle stesse ne comporta la declaratoria di nullità, rilevabile anche d’ufficio, con conseguente loro automatica sostituzione con le disposizioni di legge.

Trovano quindi applicazione in questo caso le disposizioni dettate dagli artt. 1419, secondo comma, e 1339 c.c. che prevedono che le clausole nulle che non siano in grado di inficiare l’intero contratto debbono essere sostituite di diritto dalle norme di legge.

Ad ulteriore conferma di quanto già affermato nel precedente paragrafo, occorre aggiungere come la proroga possa essere richiesta solo allorquando il contratto sia in prossimità di naturale scadenza mentre, nel caso di specie, il rapporto contrattuale non è prossimo alla sua conclusione dovendo lo stesso protrarsi di diritto per ulteriori nove anni.

Né assume rilievo il fatto che alcuni dei comproprietari si oppongano alla protrazione del rapporto contrattuale per quindici anni, posto che si tratta di un obbligo previsto per legge al verificarsi della mancata osservanza della condizione imposta dall’art. 45 della Legge n. 203/1982.

In presenza di opposizione da parte di alcuni tra i comproprietari del fondo concesso in affitto all’automatica applicazione dell’art. 1 della Legge n. 203/1982, l’affittuario dovrà tuttavia rivolgersi al Giudice per far dichiarare nulla la clausola sulla durata stipulata in deroga senza la presenza della propria organizzazione professionale di categoria con contestuale richiesta di riconduzione del contratto alla durata legale (ex multis Tribunale di Treviso, 01 aprile 2016, n. 851).

Ritengo che l’aggiornamento dei termini contrattuali e delle conseguenti imposte di registro sia comunque indipendente dall’eventuale necessità di domandare la declaratoria di nullità presso le opportune sedi giudiziarie.

In presenza di due attività con regimi IVA differenti, è obbligatorio fatturare i passaggi interni? La detrazione dell’IVA sull’acquisto di beni strumentali varia a seconda del regime IVA dell’azienda?

I passaggi interni

 

La separazione delle attività per obbligo è regolata dall’art. 36, comma 4, che prevede l’obbligo dell’applicazione separata dell’imposta, secondo le rispettive disposizioni e con riferimento al volume d’affari di ciascuna attività, in presenza di attività agricola svolta contemporaneamente con altre attività o imprese.

In presenza di attività separate, ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. 633/1972, è necessario che i passaggi interni di beni vengano regolarmente assoggettati ad IVA.

Così come stabilito dal comma 5 del suddetto articolo: “in tutti i casi nei quali l’imposta è applicata separatamente per una determinata attività, la detrazione di cui all’art. 19, se ridotta ai sensi del terzo comma dello stesso articolo, ovvero se applicata forfettariamente, è ammessa per l’imposta relativa ai beni e ai servizi utilizzati promiscuamente, nei limiti della parte imputabile all’esercizio dell’attività stessa; i passaggi di servizi all’attività soggetta a detrazione ridotta o forfettaria costituiscono prestazioni di servizio ai sensi dell’art. 3 e si considerano effettuati, in base al loro valore normale, nel momento in cui sono resi.

Per i passaggi interni dei beni tra attività separate si applicano le disposizioni degli artt. 21 e seguenti, con riferimento al loro valore normale, e le annotazioni di cui agli artt. 23 e 25 devono essere eseguite nello stesso mese. Per i passaggi dei beni all’attività di commercio al minuto di cui al terzo comma dell’art. 24 e per quelli da questa ad altra attività, l’imposta non è dovuta, ma i passaggi stessi devono essere annotati in base al corrispettivo di acquisto dei beni, entro il giorno non festivo successivo a quello del passaggio. Le annotazioni devono essere eseguite, distintamente in base all’aliquota applicabile per le relative cessioni, nei registri di cui agli artt. 23, 24 e 25, ovvero in apposito registro tenuto a norma dell’art. 39. […]”.

Vista tale disposizione, per i passaggi interni di beni tra attività separate sussiste l’obbligo di fatturazione nel momento in cui il bene viene passato dall’una all’altra attività e tali operazioni devono essere fatturate al valore normale ed annotate nei registi IVA entro la fine del mese di emissione.

In sostanza, l’attività che esegue la cessione del bene deve emettere fattura applicando l’aliquota IVA vigente per il bene ceduto, che deve essere fatturato al valore normale. Successivamente si dovrà registrare la fattura emessa nel registro delle vendite ed evidenziare l’operazione anche nella dichiarazione IVA, poiché i passaggi interni non concorrono alla determinazione del volume d’affari e devono essere sottratti dal totale delle operazioni.

D’altra parte, l’attività che riceve i beni dovrà registrare la fattura nel registro degli acquisti e detrarre l’IVA indicata nella fattura ricevuta secondo il regime applicato.

L’acquisto di beni strumentali

 

Per quanto riguarda i riflessi fiscali in tema di IVA sull’acquisto di beni strumentali, è necessario effettuare una distinzione a seconda che l’operazione sia posta in essere:

  • nell’ambito dell’attività a regime speciale ex art. 34 del D.P.R. 633/1972;
  • nell’ambito dell’attività a regime normale.

Nel primo caso, il legislatore ha previsto che per quanto riguarda gli acquisti di beni strumentali, di beni e di servizi direttamente inerenti alle operazioni agricole ed acquisti di spese generali l’IVA non sai detraibile, mentre l’IVA relativa alla cessione di beni strumentali deve essere interamente versata.

Caso contrario, invece, si ha quando l’acquisto di un bene strumentale avviene nell’ambito dell’attività a regime normale IVA: in questo caso è ammessa la detraibilità dell’imposta assolta sugli acquisti.

Una società semplice svolge attività di allevamento in regime speciale IVA e lavorazioni per conto terzi in regime IVA ordinario. Alla luce di due differenti regimi IVA, come va determinato il reddito derivante dal conto terzi?

Con la riforma della figura dell’imprenditore agricolo del 2001 sono state ampliate le attività che questi può esercitare.

In particolare, il legislatore ha voluto indicare una serie di attività che ha definito “connesse” all’attività agricola principale, legata alle tradizionali attività di coltivazione e allevamento.

Tali attività sono state descritte al terzo comma dell’articolo 2135 che recita:

Si intendono comunque connesse le attività, esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge”.

L’Agenzia delle Entrate, con la Circolare 44/E del 2002, ha fornito un primo orientamento sull’inquadramento di tali attività, precisando che la revisione dell’art. 2135 del c.c. ha portato all’eliminazione dello storico concetto di “normalità”, in base al quale un’attività si poteva includere tra quelle ammesse all’impresa agricola. Il principio della normalità è ora sostituito da quello della prevalenza.

In sostanza, con particolare riguardo alle attività agricole connesse aventi ad oggetto la prestazione di servizi, richiedono due sostanziali requisiti:

  • requisito soggettivo: l’imprenditore che svolge tali attività deve essere lo stesso soggetto imprenditore agricolo che esercita la coltivazione del fondo o del bosco, ovvero l’allevamento di animali;
  • requisito oggettivo: devono utilizzare “prevalentemente” attrezzature o risorse dell’azienda “normalmente” impiegate nell’attività agricola principale.

Circa il concetto di “normalità” delle risorse impiegate, l’Agenzia ha precisato che “è da considerarsi “normale” l’impiego in via continuativa e sistematica di tali attrezzature nell’attività agricola principale; al contrario, non sarà qualificato come “normale” l’utilizzo occasionale e sporadico nell’attività

agricola principale di attrezzature che, invece, sono impiegate con cadenza di continuità e sistematicità al di fuori dell’attività di coltivazione del fondo, del bosco o di allevamento”.

In sostanza, le risorse e le attrezzature agricole non devono essere impiegate nell’attività connessa in misura prevalente rispetto all’utilizzo operato nell’attività agricola di coltivazione del fondo, del bosco o di allevamento.

L’Agenzia è ritornata a fornire chiarimenti sulle attività agricole connesse di servizi, con la Circolare 44/E del 2004, illustrando l’applicazione dell’art. 56-bis del TUIR che introduce il regime forfettario di determinazione del reddito per tali attività.

In tale occasione, l’Agenzia ha precisato che, qualora vengano utilizzate anche attrezzature non normalmente impiegate nelle attività agricole, occorre effettuare un confronto sulla base del fatturato realizzato con l’impiego di ciascuna attrezzatura, al fine di verificare il requisito della prevalenza.

Tale requisito risulta quindi rispettato quando il fatturato derivante dall’impiego delle attrezzature normalmente impiegate nell’attività agricola principale è superiore al fatturato ottenuto attraverso l’utilizzo delle altre attrezzature.

L’Agenzia ha offerto l’esempio di un servizio che comprende l’utilizzo di un trattore (normalmente impiegato nell’attività agricola) e di una mietitrebbia (non normalmente impiegata). Nell’esempio il confronto era dato dal fatturato riconducibile ai due mezzi per il servizio reso:

  • Trattore/servizio di trasporti € 10.000
  • Mietitrebbia/servizio trebbiatura € 15.000

Anche in base all’esempio proposto, il fatturato dei servizi resi va valutato solo ai fini della determinazione della prevalenza delle risorse impiegate.

Nel caso dell’attività di spalatura neve, normalmente si utilizza un trattore agricolo ed una pala spazzaneve (accessorio). A differenza dell’esempio proposto dall’Agenzia, in tale ipotesi l’unico modo per attribuire ai due elementi (trattore/pala spazzaneve) una quota del valore fatturato è quello di fare una proporzione in base al valore del mezzo impiegato.

In tal caso, se il valore dei mezzi impiegati normalmente nelle attività agricole supera il valore degli altri mezzi impiegati, l’attività è da ritenersi connessa.

Riteniamo segnalare a tal proposito che, a nostro avviso, nel calcolo per determinare la prevalenza delle risorse utilizzate, debba essere presa in considerazione anche l’eventuale manodopera impiegata. Pertanto, qualora per svolgere le attività di spalatura neve fosse impiegato personale dedicato esclusivamente o prevalentemente a tale attività, tale elemento dovrà essere valorizzato al fine di valutare il rispetto della prevalenza.

Conclusioni

Nella formulazione del quesito è stata posta l’attenzione sul fatto che l’impresa abbia separato le attività e operato l’opzione ai fini IVA per la determinazione di tale imposta nei modi ordinari.

Tuttavia riteniamo che sia centrale, affinché tale attività possa rientrare nella tassazione forfettaria ai fini delle imposte sui redditi ai sensi dell’articolo 56-bis del TUIR (come pure per l’applicazione del regime di cui all’articolo 34-bis del Decreto IVA), che le risorse impiegate siano normalmente impiegate nell’attività agricola secondo i principi sopra riassunti e, qualora fossero impiegate anche altre risorse, queste non dovranno assumere carattere prevalente rispetto a quelle normalmente impiegate nell’attività agricola.

Occorre inoltre ricordare che l’Agenzia ha precisato nei citati documenti di prassi che “per rientrare fra le attività agricole connesse, l’attività di fornitura di servizi svolta dall’imprenditore agricolo non deve assumere per dimensione, organizzazione di capitali e risorse umane, la connotazione di attività principale”.

Occorrerà pertanto tener conto delle attività complessivamente svolte dall’impresa, per comprendere se l’attività agricola è effettivamente l’attività principale, con riferimento alle risorse impiegate.

In particolare, riteniamo debba essere anche valutato se i mezzi “agricoli” impiegati per le attività di servizi siano compatibili e coerenti con le attività agricole svolte.

A tal fine, suggeriamo di monitorare anche le ore/giornate lavoro degli addetti alle attività di servizi.

Pertanto, la società potrà applicare il regime di tassazione disposto dall’articolo 56-bis del TUIR (imponibile pari al 25% dell’imponibile IVA) se svolge un’attività agricola e le prestazioni di servizi fornite utilizzando prevalentemente le “risorse[1] normalmente impiegate nell’attività agricola e purché tali attività non assumano la connotazione di attività principale.

[1] Intendendo con il termine risorse: mezzi, persone e capitali

 

È possibile stipulare e registrare un contratto di affitto di fondo rustico dalle parti senza che alla stipula siano presenti O.O.S.S.? Il canone è libero o ci sono dei parametri minimi da rispettare? Vi sono clausole non derogabili?

Nel caso in cui le parti intendano stipulare un contratto di affitto di fondo rustico in deroga, occorre necessariamente la compartecipazione delle organizzazioni professionali agricole maggiormente rappresentative a livello nazionale, a tutela degli interessi di entrambi i contraenti, le quali saranno altresì tenute a sottoscrivere l’atto.

È quanto prevede espressamente l’art. 45 della Legge n. 203/1982, secondo cui “sono validi tra le parti, anche in deroga alle norme vigenti in materia di contratti agrari, gli accordi, anche non aventi natura transattiva, stipulati tra le parti stesse in materia di contratti agrari con l’assistenza delle rispettive organizzazioni professionali agricole maggiormente rappresentative a livello nazionale, tramite le loro organizzazioni provinciali, e le transazioni stipulate davanti al  giudice  competente”.

Ne consegue che, in presenza di un contratto di affitto in deroga sottoscritto dalle parti in assenza dell’obbligatorio intervento delle rispettive organizzazioni professionali di categoria, le clausole derogate sono nulle e vengono sostituite di diritto, ex art. 1419, secondo comma, c.c., dalle norme dettate in materia di contratti agrari dalla Legge n. 203/1982. Se, ad esempio, le parti avevano previsto una durata pari a cinque anni senza effettiva partecipazione alle trattative delle rispettive organizzazioni professionali di categoria, tale clausola è pertanto nulla e torna ad applicarsi la durata minima quindicennale di cui all’art. 1 della Legge n. 203/1982.

Ciò premesso, le clausole che sono suscettibili di essere derogate sono solitamente quelle attinenti alla durata contrattuale (sul punto, la Cassazione, con Sentenza n. 18654/2003, è giunta a ritenere valido anche un contratto di affitto in deroga con previsione di una durata di un solo anno), al canone e al regime dei miglioramenti.

Altra deroga ammissibile è quella in materia di modalità di risoluzione del contratto, con possibilità di previsione della clausola risolutiva espressa ex art. 1456 c.c.

Non è suscettibile di essere derogata la clausola che impone il divieto di mutare la destinazione economica del bene.

Quanto al canone, essendo stati dichiarati incostituzionali gli artt. 9 e 62 della Legge n. 203/1982, che prevedevano un meccanismo per la determinazione del canone legale, lo stesso è liberamente determinabile dalle parti, purché sia congruo in relazione alle caratteristiche del fondo concesso in conduzione. In caso contrario, il creditore pignorante, che nel corso di un’esecuzione forzata dovesse acquistare all’asta il fondo pignorato, potrebbe chiedere la liberazione dell’immobile su cui insiste un contratto di affitto di fondo rustico, sul presupposto che il canone concordato tra le parti è vile, ossia inferiore di un terzo rispetto al giusto prezzo o a quello che risulta da eventuali precedenti locazioni.

La mia azienda agricola ha sottoscritto con un’altra azienda agricola un contratto di vendita in piedi di piante di canapa Sativa L per integrare il proprio prodotto con una fase di manipolazione/trasformazione, nel rispetto della prevalenza ai fini della tassazione su base catastale. Qual è l’aliquota IVA corretta da applicare?

Occorre premettere che la corretta classificazione dei prodotti, compresi quelli derivanti dalle attività agricole di coltivazione, ai fini dell’applicazione dell’aliquota IVA, dipende dalla classificazione merceologica effettuata dalla competente Agenzia delle Dogane e dei Monopoli e alla loro riconducibilità o meno ai prodotti tassativamente elencati nella tabella A allegata al Decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, parti II, II-bis e III.

Ciò premesso, da una ricognizione dei beni indicati nelle suddette tabelle, le voci sulle quali è opportuno sindacare sono le seguenti:

  • tabella A parte II (IVA 4%):

5) ortaggi e piante mangerecce, esclusi i tartufi, freschi, refrigerati, presentati immersi in acqua salata, solforata o addizionata di altre sostanze atte ad assicurarne temporaneamente la conservazione, ma non specialmente preparati per il consumo immediato; disseccati, disidratati o evaporati, anche tagliati in pezzi o in fette, ma non altrimenti preparati (v.d. ex 07.01 – ex 07.03 – ex 07.04);

6) ortaggi e piante mangerecce, anche cotti, congelati o surgelati (v.d. 07.02).

Gli unici beni presenti in tale tabella, riconducibili astrattamente al mondo vegetale, sono però caratterizzati dalla destinazione alimentare (piante mangerecce), pertanto pur avendo la canapa anche in utilizzo alimentare, non si ritiene possa essere associata alle sopra elencate tipologie di beni.

  • nella tabella A, parte III (IVA 10%):

20) bulbi, tuberi, radici tuberose, zampe e rizomi, allo stato di riposo vegetativo, in vegetazione o fioriti, altre piante e radici vive, comprese le talee e le marze, fiori e boccioli di fiori recisi, per mazzi o per ornamenti, freschi, fogliami, foglie, rami ed altre parti di piante, erbe, muschi e licheni, per mazzi o per ornamenti, freschi (v.d. ex 06.01 – 06.02. ex 06.03 – 06.04);

21) ortaggi e piante mangerecce macinati o polverizzati, ma non altrimenti preparati; radici di manioca, d’arrow-root e di salep, topinambur, patate dolci ed altre simili radici e tuberi ad alto tenore di amido o di inulina, anche secchi o tagliati in pezzi; midollo della palma a sago (v.d. ex 07.04 e 07.06);

69) ortaggi, piante mangerecce e frutta, preparati o conservati nell’aceto o nell’acido acetico, con o senza sale, spezie, mostarda o zuccheri (v. d. 20.01);

70) ortaggi e piante mangerecce preparati o conservati senza aceto o acido acetico (v. d. ex 20.02);

72) frutta, scorze di frutta, piante e parti di piante, cotte negli zuccheri o candite (sgocciolate, diacciate, cristallizzate) (v. d. 20.04).

In questo caso, le piante hanno destinazione “vivaistica” oppure mangereccia. Pertanto, riteniamo che la cessione di piante di canapa “tagliate” o comunque raccolte per una successiva lavorazione non sia compatibile con queste descrizioni.

La canapa è da ritenersi pertanto un prodotto non ricompreso tra quelli per i quali non trovano applicazione le aliquote ridotte. Conseguentemente, si ritiene che l’aliquota IVA per la vendita in piedi di canapa sia quella del 22%.

Una Srl agricola in opzione, oltre alla propria produzione di pomodori e melanzane, acquista prodotti presso terzi e procede alla manipolazione degli stessi con il proprio personale e le proprie strutture. Se un anno l’acquisto di melanzane presso terzi risulta superiore alla propria produzione, si perde il regime di tassazione catastale anche per i pomodori?

La determinazione catastale del reddito per le società a responsabilità limitata avviene su opzione ai sensi di quanto previsto dall’art. 1, comma 1093, della Legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Legge Finanziaria 2007).

Le modalità applicative per l’esercizio dell’opzione e per la determinazione del reddito sono disciplinate dal Decreto Ministeriale n. 213 del 29 settembre 2007, il quale è stato ulteriormente oggetto di chiarimenti da parte della Agenzia delle Entrate con Circolare n. 50/E del 1° ottobre 2010.

Ai fini dell’esercizio dell’opzione, l’articolo 2 del summenzionato Decreto stabilisce che una società è considerata “società agricola” quando, congiuntamente, rispetta i due seguenti requisiti:

  • l’oggetto sociale deve prevedere l’esclusivo esercizio delle attività agricole di cui all’articolo 2135 del Codice Civile;
  • nella propria ragione sociale deve comprendere la definizione di “società agricola”.

In merito al requisito dell’esercizio esclusivo delle attività agricole, è bene ricordare che secondo la nuova formulazione dell’art. 2135 del c.c. rientrano tra le attività agricole la coltivazione del fondo, la silvicoltura, l’allevamento di animali e tutte le attività connesse, cioè:

  • le attività dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione dei prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali;
  • la fornitura di beni o servizi utilizzando prevalentemente le attrezzature o risorse dell’azienda agricola;
  • l’agriturismo.

Al riguardo, come ribadito dalla stessa Agenzia delle Entrate, si ritiene che il suddetto requisito formale richiesto dalle citate disposizioni debba trovare un riscontro nell’attività in concreto svolta dalle società agricole. Pertanto, non costituiscono società agricole quelle che, a prescindere dall’oggetto sociale, esercitano attività:

  • di cui all’articolo 2195 del Codice Civile, vale a dire: attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi; attività intermediaria nella circolazione dei beni; attività di trasporto per terra, per acqua o per aria; attività bancaria o assicurativa; altre attività ausiliarie delle precedenti;
  • di cui all’articolo 55 del TUIR, comma 2, lettere a) e b), ovvero: attività organizzata in forma di impresa diretta alla prestazione di servizi che non rientrano nell’articolo 2195 del Codice Civile; attività di sfruttamento di miniere, cave, torbiere, saline, laghi, stagni e altre acque interne.

Il principio di esclusività che caratterizza le società agricole non viene meno solo quando la società pone in essere delle attività strumentali a quella principale per il conseguimento dell’oggetto sociale. In altri termini, le operazioni ritenute funzionali allo svolgimento dell’attività esclusiva sono compatibili con l’oggetto sociale in quanto cosiddette attività strumentali che non connotano l’oggetto sociale medesimo.

La Circolare 50/E citata in precedenza chiarisce che le attività di manipolazione, conservazione, trasformazione e commercializzazione, svolte dalla società su prodotti contemplati nella tabella allegata al citato Decreto Ministeriale, non derivanti prevalentemente dalla coltivazione del fondo, del bosco o dall’allevamento di animali, sono sempre produttive di reddito d’impresa, determinato secondo le regole ordinarie. In assenza del requisito della “prevalenza”, le suddette attività non possono qualificarsi come produttive di reddito agrario.

Inoltre, è opportuno sottolineare che il requisito dell’esercizio esclusivo delle attività agricole fa espresso riferimento all’articolo 2135 del Codice Civile secondo cui è inclusa tra le attività agricole la manipolazione di prodotti, purché gli stessi siano prevalentemente propri.
Pertanto, così come nel caso in esame, la manipolazione e trasformazione di prodotti prevalentemente di terzi è esclusa dall’ambito dell’art. 2135 c.c., raffigurando un’attività puramente commerciale, in grado di inficiare l’esercizio esclusivo delle attività agricole.

Alla luce di quanto sopra riportato, si ritiene che il mancato rispetto del requisito della prevalenza determinerà la perdita dell’esclusività dell’esercizio dell’attività agricola, essenziale per poter esercitare l’opzione del reddito su base catastale, e l’intera produzione dell’anno dovrà essere tassata analiticamente (ricavi – costi) ai sensi dell’art. 56 del TUIR.

Una società agricola esercita attività di allevamento di vacche da latte, coltivazione terreni e l’attività di agriturismo. Inoltre, la società alleva al suo interno alcuni cavalli e vorrebbe esercitare l’attività di ricovero/pensione di cavalli (di proprietà di terzi) oltre che intraprendere l’attività di corsi di equitazione, affidandosi ad istruttori abilitati. Si chiede il corretto inquadramento ai fini IRPEF/IVA delle due attività.

La Legge n. 96 del 1996, con cui il legislatore ha disciplinato l’attività agrituristica, è finalizzata a sostenere l’agricoltura mediante la promozione di attività tipicamente turistiche, consentendo così anche in ambito agricolo lo svolgimento di attività oggettivamente di carattere commerciale. La norma del 1996 individua tra le attività agrituristiche anche quelle dirette all’organizzazione di attività ricreative, culturali, didattiche, di pratica sportiva, nonché escursionistiche e di ippoturismo, anche per mezzo di convenzioni con gli enti locali, finalizzate alla valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale.

Lo svolgimento di un’attività di ricovero/pensione per cavalli o l’organizzazione di corsi di equitazione, non riconducibili a servizi accessori di un’attività agrituristica (ad esempio ospitalità/soggiorno), si ritiene non possano rientrare tra le attività agricole connesse e, pertanto, debbano sottostare alla disciplina generale delle attività d’impresa.

Infatti, la revisione dell’art. 2135 del Codice Civile riconosce all’imprenditore agricolo la possibilità di svolgere, oltre all’attività agricola caratteristica (coltivazione, silvicoltura e allevamento), delle attività connesse.

Tra le attività agricole connesse prevista dall’art. 2135 c.c. vi rientra anche la fornitura di servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge.

Tuttavia, l’esercizio abituale di un’attività di pensione per cavalli si ritiene non possa rientrare tra le attività connesse in quanto le risorse utilizzate (stalla/box) vengono distolte dall’attività agricola e destinate in via esclusiva all’attività commerciale.

Considerazioni analoghe riguardano l’attività dei corsi di equitazione ove vengono richieste figure professionali, attrezzature e strumentazioni non attinenti alle attività agricole. In entrambe le ipotesi, a nostro avviso, non vi è quindi alcuna connessione tra l’attività agricola e le nuove attività che l’impresa intende avviare.

Per quanto riguarda il corretto trattamento fiscale, occorre precisare che l’attività di pensione per cavalli, con la quale la società intende fornire a soggetti terzi un riparo per gli animali nonché i relativi servizi connessi alla gestione dei box e degli animali (alimentazione e abbeveraggio, pulizia, movimento dell’animale, ecc.), rientra tra le attività d’impresa e come tali si determinano i redditi ai sensi dell’articolo 56 del TUIR (ricavi-costi, componenti pluriennali di costi e ricavi).

Ai fini IVA, per il servizio fornito, l’azienda applica l’aliquota IVA ordinaria (22%).

La stessa aliquota IVA e lo stesso regime di tassazione risulta applicabile anche per lo svolgimento di corsi di equitazione tramite personale qualificato. Il personale dovrà essere regolarmente assunto e retribuito, provvedendo al pagamento delle relative imposte e contributi previdenziali, salvo che non si faccia ricorso a liberi professionisti ai quali si provvederà a corrispondere i compensi con conseguente ricezione di idonea documentazione a quietanza dei pagamenti effettuati.

Le suddette attività non rientrano tra le attività agricole escluse da IRAP.

Per quanto concerne il servizio di corsi di equitazione, si potrebbe valutare la costituzione di un’Associazione Sportiva Dilettantistica applicando, conseguentemente, il relativo regime fiscale. Infine, nel caso in cui la società non intenda avviare le predette attività, qualora le strutture (stalle, paddock, ecc.) siano distinte da quelle normalmente impiegate per l’attività agricola e agrituristica, e qualora non vi siano vincoli sulla destinazione delle stesse, riteniamo che la stessa possa anche affittarle a terzi.

In tale ipotesi, per la società concedente i beni in affitto, il reddito sarà dato dai canoni d’affitto percepiti.

Il titolare di un’azienda agricola stipula un contratto di affitto di fondo rustico per la durata di sei anni, con scadenza il 31 dicembre 2020, senza le associazioni di categoria ma registrato regolarmente presso l’Agenzia delle Entrate. Il fondo è rappresentato da una particella unica e indivisibile e appartiene a più proprietari e, durante la durata del fitto, uno di essi viene a mancare e gli succedono gli eredi, i quali sono tenuti a continuare il rapporto fino alla scadenza, seppure in disaccordo. Ciò premesso, considerato che la scadenza naturale di un contratto di fitto agrario non stipulato con le associazioni di categoria è di quindici anni e considerato che la particella è comune e indivisibile, il conduttore può richiedere la proroga del contratto all’Agenzia delle Entrate per i restanti nove anni, anche senza avere il consenso degli eredi del defunto?

Il contratto di affitto di fondo rustico in deroga, così come recita l’art. 45 della Legge n. 203/1985, è valido e produttivo di effetti giuridici solo qualora sia stipulato dalle parti, alla presenza delle rispettive organizzazioni professionali di categoria che lo debbono anche sottoscrivere.

Qualora sia rispettata tale condizione sine qua non, nel contratto le parti possono derogare alla durata minima legale che in materia di affitto di fondo rustico è pari a quindici anni.

Qualora il contratto “in deroga” non sia stato sottoscritto dalle rispettive organizzazioni professionali di categoria, torna invece ad essere operativo l’art. 1 della Legge n. 203/1982, che prevede che il rapporto contrattuale non possa avere una durata inferiore ai quindici anni.

Ne consegue che la parte interessata a far accertare la mancata assistenza e sottoscrizione del contratto in deroga da parte delle rispettive organizzazioni professionali di categoria non sia tenuta a chiedere la proroga dell’originario contratto di affitto di fondo rustico, dal momento che la norma sopra citata opera in automatico.

La ratio si rinviene nel fatto che le norme sui contratti agrari sono inderogabili ai sensi dell’art. 58 della Legge n. 203/1982, ed un eventuale violazione delle stesse ne comporta la declaratoria di nullità, rilevabile anche d’ufficio, con conseguente loro automatica sostituzione con le disposizioni di legge.

Trovano quindi applicazione, in questo caso, le disposizioni dettate dagli artt. 1419, secondo comma, e 1339 c.c. che prevedono che le clausole nulle che non siano in grado di inficiare l’intero contratto debbono essere sostituite di diritto dalle norme di legge.

Ad ulteriore conferma di quanto già affermato nel precedente paragrafo, occorre aggiungere come la proroga possa essere richiesta solo allorquando il contratto sia in prossimità di naturale scadenza, mentre, nel caso di specie, il rapporto contrattuale non è prossimo alla sua conclusione dovendo lo stesso protrarsi di diritto per ulteriori nove anni.

Né assume rilievo il fatto che alcuni dei comproprietari si oppongano alla protrazione del rapporto contrattuale per quindici anni, posto che si tratta di un obbligo previsto per legge al verificarsi della mancata osservanza della condizione imposta dall’art. 45 della Legge n. 203/1982.

In presenza di opposizione da parte di alcuni tra i comproprietari del fondo concesso in affitto, all’automatica applicazione dell’art. 1 della Legge n. 203/1982, l’affittuario dovrà tuttavia rivolgersi al Giudice per far dichiarare nulla la clausola sulla durata stipulata in deroga, senza la presenza della propria organizzazione professionale di categoria, con contestuale richiesta di riconduzione del contratto alla durata legale (ex multis Tribunale di Treviso, 1° aprile 2016, n. 851).

Si ritiene che l’aggiornamento dei termini contrattuali e delle conseguenti imposte di registro sia comunque indipendente dalla eventuale necessità di domandare la declaratoria di nullità presso le opportune sedi giudiziarie.

La nostra società agricola svolge attività di coltivazione associata all’allevamento di bovini e l’attività agrituristica in Lombardia. Vorremmo utilizzare una parte delle stalle per fornire un servizio di “pensione per cavalli”. Tale attività può essere effettuata nell’ambito dell’attività agrituristica?

La Legge n. 96 del 1996, con cui il legislatore ha disciplinato l’attività agrituristica, è finalizzata a sostenere l’agricoltura mediante la promozione di attività tipicamente turistiche, consentendo così anche in ambito agricolo lo svolgimento di attività oggettivamente di carattere commerciale.

La norma del 1996 individua tra le attività agrituristiche, oltre a quelle di ricezione e ospitalità esercitate dagli imprenditori agricoli di cui all’articolo 2135 del Codice Civile, anche quelle dirette all’organizzazione di attività ricreative, culturali, didattiche, di pratica sportiva, nonché escursionistiche e di ippoturismo, anche per mezzo di convenzioni con gli enti locali, finalizzate alla valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale.

Sul punto anche la recente revisione delle attività agrituristiche ad opera della Legge Regionale 18 giugno 2019 – n. 11, con cui in Regione Lombardia si è data applicazione alla multifunzionalità dell’impresa agricola, non si discosta dai principi generali delle attività agricole connesse e della norma nazionale sull’agriturismo[1].

In particolare, la L.R. n. 11/2019 interviene modificando l’art. 150 della L.R. n. 31/2008 prevedendo che “nel concetto di multifunzionalità rientrano tutte le attività che possono essere esercitate in connessione con l’attività agricola dagli imprenditori agricoli”.

Pertanto, nell’ambito delle attività agricole connesse, e specificatamente di quelle agrituristiche, è richiesto che i servizi e le attività ricreative siano finalizzate alla valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale.

Lo svolgimento di un’attività di ricovero/pensione per cavalli o l’organizzazione di corsi di equitazione non riconducibile a servizi accessori di un’attività agrituristica (ad esempio ospitalità/soggiorno) riteniamo non possa rientrare tra le attività agricole connesse e, pertanto, debba sottostare alla disciplina generale delle attività d’impresa.

Infatti, la revisione dell’art. 2135 del Codice Civile riconosce all’imprenditore agricolo la possibilità di svolgere oltre all’attività agricola caratteristica (coltivazione, silvicoltura e allevamento) delle attività connesse.

Tra le attività agricole connesse previste dall’art. 2135 c.c. vi rientra anche la fornitura di servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge.

Tuttavia, l’esercizio abituale di un’attività di pensione per cavalli riteniamo non possa rientrare tra le attività connesse in quanto le risorse utilizzate (stalla/box) vengono distolte dall’attività agricola e destinate in via esclusiva all’attività commerciale.

A nostro avviso, non vi è quindi alcuna connessione tra l’attività agricola e la nuova attività che l’impresa intende avviare.

Qualifica “società agricola” e qualifica IAP

Segnaliamo, inoltre, che il terzo comma dell’articolo 1, del D.Lgs. n. 99/2004, dispone che “le società di persone, cooperative e di capitali, anche a scopo consortile, sono considerate imprenditori agricoli professionali qualora lo statuto preveda quale oggetto sociale l’esercizio esclusivo delle attività agricole di cui all’articolo 2135 (…)”,definendo gli ulteriori requisiti al comma 3.

Pertanto, lo svolgimento delle attività agricole, associato a quello delle attività connesse (comprese le prestazioni di servizi), nel rispetto dei limiti della “normalità” e della “prevalenza”, non fa decadere la società dalla qualifica di imprenditore agricolo principale, consentendo quindi alla stessa di beneficiare degli aiuti e delle agevolazioni riservate a questa figura.

Nel caso di specie è stato rappresentato che la società che intende valutare l’avviamento della suddetta attività è anche una “società agricola” non precisando se la stessa ha anche i requisiti IAP.

L’articolo 2 del richiamato Decreto Legislativo n. 99/2004 delinea la figura giuridica della società agricola, prevedendo due requisiti:

  • la società deve avere quale oggetto sociale l’esercizio esclusivo delle attività agricole di cui all’articolo 2135 del Codice Civile. Al riguardo, l’articolo 36, comma 8, del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito dalla Legge 17 dicembre 2012, n. 221, ha modificato il citato articolo 2, precisando che non costituiscono distrazione dall’esercizio esclusivo delle attività agricole la locazione, il comodato e l’affitto di fabbricati ad uso abitativo, nonché di terreni e di fabbricati ad uso strumentale, a condizione che i ricavi siano marginali rispetto a quelli derivanti dall’attività agricola. Il requisito della marginalità è soddisfatto se i suddetti ricavi risultino non superiori al 10% dell’ammontare dei ricavi complessivi;
  • la ragione sociale o la denominazione deve contenere l’indicazione di “società agricola”.

Occorre quindi prestare attenzione alle attività che la società intende avviare in quanto le stesse potrebbero determinare la perdita del requisito di esercizio esclusivo dell’attività agricola, conseguentemente la perdita della qualifica IAP e di società agricola.

Ciò potrà portare come ulteriore conseguenza la decadenza dal diritto di beneficiare di aiuti già percepiti ancora in fase di osservazione/rendicontazione, e la necessità di restituzione degli stessi, ovvero l’impossibilità di accedere a nuovi aiuti per le attività agricole/agrituristiche, nonché alla perdita del diritto di usufruire di agevolazioni fiscali.

Trattamento fiscale

L’attività di pensione per cavalli con la quale la società intende fornire a soggetti terzi un riparo per gli animali nonché i relativi servizi connessi alla gestione dei box e degli animali (alimentazione e abbeveraggio, pulizia, movimento dell’animale, ecc.) rientra tra le attività d’impresa e come tali si determinano i redditi ai sensi dell’articolo 56 del TUIR (ricavi-costi, componenti pluriennali di costi e ricavi).

L’avvio di tale attività dovrà essere comunicato dall’azienda all’Agenzia delle Entrate ed al Registro delle Imprese. Inoltre, le nuove attività dovranno essere svolte nel rispetto delle norme igieniche previste dal regolamento veterinario e, in tale ambito, occorrerà valutare la compatibilità  delle stesse con l’attuale attività di allevamento (stalle promiscue, accessi promiscui con connessi rischi di epidemie, ecc.).

Ai fini IVA per il servizio fornito l’azienda applica l’aliquota IVA ordinaria (22%).

La suddetta attività non rientra tra le attività agricole escluse da IRAP.

[1] L.R. n. 11/2019: “(…) art. 151 (Attività agrituristiche) 1. Per attività agrituristiche s’intendono le attività di cui all’articolo 2, comma 1, della Legge 96/2006 svolte dai soggetti di cui al comma 2 dello stesso articolo.

  1. Rientrano fra le attività agrituristiche:
    • l’ospitalità in alloggi o in spazi aperti attrezzati per la sosta dei campeggiatori fino a un massimo di cento ospiti al giorno e sempre nel rispetto del rapporto di connessione tra attività agricola e attività agrituristica;
    • la somministrazione di alimenti e bevande per il consumo sul posto, prevalentemente improntati alla tradizione e tipicità della cucina rurale lombarda, fino ad un massimo di centosessanta pasti al giorno e sempre nel rispetto del rapporto di connessione tra attività agricola ed attività agrituristica;
    • l’organizzazione, all’interno delle strutture aziendali, di attività di degustazione di prodotti aziendali;
    • l’organizzazione, nell’ambito dell’azienda o delle aziende associate o anche all’esterno dei beni fondiari nella disponibilità dell’impresa, di attività agrituristico-venatorie e cinotecniche, ricreativo-culturali, ludico-didattiche, di rilevanza sociale, nonché di ittiturismo e di ippoturismo.
Un’azienda vitivinicola produce spumante e lo imbottiglia per conto proprio, in quanto ha l’impianto di imbottigliamento. Ha ricevuto una richiesta da un altro produttore per imbottigliare lo spumante con metodo classico (il cliente porterebbe solo il vino ed il servizio consiste nel fornire bottiglia, tappo e imbottigliamento). Può essere considerata attività connessa? Che aliquota IVA si applica? La contabilità va tenuta separata?

Dal 1° gennaio 2004 sono entrate in vigore le nuove disposizioni previste dall’art. 2 comma 6 Legge 350/03, relativamente alle attività connesse per il settore agricolo.
A seguito del provvedimento legislativo appena citato sono stati istituiti:

  • l’art. 56-bis del TUIR che, specificatamente per le attività di servizi prevede: “per le attività dirette alla fornitura di servizi di cui al terzo comma dell’articolo 2135 del Codice Civile, il reddito è determinato applicando all’ammontare dei corrispettivi delle operazioni registrate o soggette a registrazione agli effetti dell’imposta sul valore aggiunto, conseguiti con tali attività, il coefficiente di redditività del 25 per cento”;
  • l’art. 34-bis del D.P.R. n. 633/72 che dispone quanto segue: “per le attività dirette alla produzione di beni ed alla fornitura di servizi di cui al terzo comma dell’articolo 2135 del Codice Civile, l’imposta sul valore aggiunto è determinata riducendo l’imposta relativa alle operazioni imponibili in misura pari al 50 per cento del suo ammontare, a titolo di detrazione forfettaria dell’imposta afferente agli acquisti ed alle importazioni”.

Successivamente, con l’emanazione da parte della Direzione generale delle Entrate della Circolare n. 44/E del 2004, si sono chiariti alcuni aspetti relativi all’inquadramento delle attività agricole connesse.
Tali attività devono essere svolte utilizzando prevalentemente attrezzature o risorse normalmente impiegate nell’attività agricola principale. Pertanto, due sono i parametri da prendere in considerazione al fine di verificare la sussistenza delle condizioni previste dalla norma: normalità e prevalenza.
Un bene è normalmente utilizzato nell’attività agricola se corrisponde al fabbisogno lavorativo dell’azienda, in riferimento sia alla tipologia e al numero delle attrezzature, sia al tipo di attività svolta.
Per quanto riguarda la prevalenza, la Circolare Ministeriale (44/E del 2004) chiarisce che la verifica va effettuata in relazione al volume d’affari prodotto con le attrezzature normalmente impiegate in azienda, che deve risultare superiore a quello conseguito con le altre attrezzature.
Pertanto, i mezzi e le attrezzature impiegate devono essere quelle normalmente impiegate nell’azienda vitivinicola. Qualora fossero utilizzate attrezzature necessarie esclusivamente all’attività connessa di servizi c/terzi, è comunque necessario che, complessivamente, i mezzi impiegati vedano una prevalenza delle attrezzature utilizzate nell’attività agricola principale.
La Circolare 44/E del 2004 afferma che il confronto tra le attrezzature normalmente impiegate nell’attività agricola principale e quelle appositamente utilizzate per la fornitura dei servizi (in proprietà o in affitto) va effettuato sulla base del fatturato realizzato con l’impiego di ciascuna specifica attrezzatura: il requisito della prevalenza è rispettato quando il fatturato derivante dall’impiego delle attrezzature normalmente impiegate nell’attività agricola principale è superiore al fatturato ottenuto attraverso l’utilizzo delle altre attrezzature.
Nella Circolare 44/E del 2002 (e confermato nella Circolare 44/E del 2004) viene inoltre precisato che, per rientrare fra le attività agricole connesse, l’attività di fornitura di servizi svolta dall’imprenditore agricolo non deve assumere per dimensione, organizzazione di capitali e risorse umane, la connotazione di attività
principale.
Alla luce dei principi enunciati dalle norme e ripresi dalla prassi, riteniamo che l’attività descritta dall’istante possa rientrare tra le attività agricole connesse solo nel caso in cui l’impianto di imbottigliamento sia dimensionato per la propria produzione aziendale. infatti, solo in questa ipotesi, si potrà assumere come
verificato il requisito della “normalità”.
Per quanto concerne le bottiglie e i tappi (beni forniti contestualmente al servizio di imbottigliamento e non rientranti nel concetto di “normalità”) sarebbe opportuno che venissero acquistati direttamente dal cliente, ma se ciò non fosse possibile, è pur sempre necessario che, in termini di volume d’affari, la fornitura di tali beni non sia prevalente rispetto al valore del servizio di imbottigliamento.
In merito al terzo quesito, riteniamo che qualora siano svolte delle attività connesse di servizi, il regime naturale a cui assoggettare tali operazioni ai fini IVA sia quello introdotto dall’art. 34-bis, ovvero applicando la detrazione del 50% sull’IVA esposta nelle fatture emesse relative a queste operazioni. Si ritiene che l’aliquota IVA applicabile alla prestazione di servizi in oggetto sia quella ordinaria al 22%.
Infine, per quanto riguarda la gestione della contabilità, è opportuno distinguere due differenti situazioni:

  • se l’impresa agricola occasionalmente presta servizi con macchine agricole a favore di un’altra azienda, realizza operazioni diverse. In tal caso, tali operazioni devono essere registrate distintamente, considerate separatamente in sede di liquidazione periodica e indicate a parte nella dichiarazione annuale;
  • se, invece, sistematicamente, con un idoneo parco macchine e una organizzazione propria, presta servizi a terzi in via continuativa, realizza una attività distinta da quella agricola e ha l’obbligo di tenere le contabilità separate.
Un socio amministratore di una Srl agricola può dare la propria qualifica anche ad altre società di capitali agricole di cui è sempre socio amministratore?

La problematica sollevata è stata frequentemente oggetto di discussione fino a quando la Direzione Regionale delle Entrate dell’Emilia Romagna, con la Nota prot. n. 909-32505/2006 del 20 luglio 2006, è intervenuta sull’argomento, fornendo i necessari chiarimenti.

Di recente, anche la giurisprudenza ha accolto l’interpretazione della Regione, tant’è che i Giudici della Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 8430 del 30 aprile 2020, hanno confermato che l’amministratore IAP itinerante è ammesso esclusivamente nelle società agricole che hanno la natura giuridica di società di persone.

I Giudici della Suprema Corte hanno chiarito che l’amministratore plurimo nelle società agricole è ammesso solo per le Ss, Snc e Sas, poiché, se così non fosse, si darebbe luogo ad un fenomeno abusivo.

La questione del contendere nasce dall’interpretazione dell’articolo 1, comma 3-Bis, D.Lgs. 29 marzo 2004, n. 99 secondo cui “la qualifica di imprenditore agricolo professionale può essere apportata da parte dell’amministratore ad una sola società”.

In passato, era sorto il problema di capire se la norma in questione facesse riferimento all’amministratore IAP di società di capitali (che può anche non essere socio della società) o anche al socio IAP amministratore di società di persone.

Stando a quanto stabilisce il legislatore, per potersi dire “agricola” la società, oltre ad avere quale oggetto sociale l’esercizio esclusivo delle attività agricole, deve rispettare i seguenti requisiti:

  • se è una società di persone deve avere almeno un socio in possesso della qualifica di imprenditore agricolo professionale iscritto nella relativa gestione previdenziale ed assistenziale (nelle società in accomandita semplice si deve trattare di un accomandatario);
  • se è una società di capitali o cooperativa deve avere almeno un amministratore in possesso della qualifica di IAP iscritto nella relativa gestione previdenziale ed assistenziale, pertanto, chiunque può essere socio di queste società di capitali, anche se si tratta di un soggetto “non agricoltore” (ad eccezione del socio qualificante di società cooperativa).

Secondo quanto riportato dai Giudici nell’Ordinanza 8430/2020, l’amministratore qualificante di società di capitali non può apportare la sua qualifica di IAP a più di una società di capitali; a contrario, invece, per il socio qualificante di società di persone non vi è il limite di poter apportare la qualità di IAP a una sola società di persone (e non è rilevante che egli sia anche socio di altra o altre società di persone o di una o più società di capitali).

La Suprema Corte, quindi, ha ribadito quanto già aveva precedentemente affermato la Direzione Regionale delle Entrate dell’Emilia Romagna con la Nota prot. n. 909-32505/2006 del 20 luglio 2006, confermando che la stessa persona fisica IAP può avere la qualità di “socio qualificante” di una pluralità di società di persone, e ciò anche se in esse (o in una di esse) egli assuma la qualità di “socio amministratore”.

La motivazione della decisione riportata nel testo della Sentenza è che la norma in questione ha inteso evitare che un soggetto in possesso della qualifica di IAP assumesse il ruolo di amministratore in più società di capitali, con conseguente “sfruttamento di tale tipologia societaria”, dando così luogo al “fenomeno abusivo” del cosiddetto “IAP itinerante”.

Tale fenomeno abusivo, invece, non risulta altrettanto perseguibile per mezzo delle società di persone poiché la natura giuridica di queste società prevede che la persona fisica IAP acquisisca la qualifica di socio responsabile personalmente e solidalmente delle obbligazioni sociali.

In allegato il riferimento all’Ordinanza n. 8430 del 30 aprile 2020.

Qual è l’aliquota IVA corretta da applicare alle cessioni da asporto o con consegna a domicilio?

Nell’attività della ristorazione ha visto una grande diffusione la modalità con consegna a domicilio o da asporto. Tale modalità operativa è stata incentivata dallo stesso DPCM del 26 aprile 2020, con il quale è stata concessa la facoltà agli esercizi abilitati alla somministrazione alimenti e bevande di effettuare la loro attività esclusivamente in modalità da asporto o consegna a domicilio.

Le attività che si sono attrezzate per la consegna a domicilio o per il servizio di asporto devono prestare attenzione all’aliquota IVA applicata alla cessione dei singoli prodotti.

Infatti, mentre nell’ambito del servizio di ristorazione si applica l’aliquota IVA del 10%, ai sensi della tabella A, Parte III, punto 121 “somministrazione di alimenti e bevande”, la vendita tramite asporto o la consegna a domicilio si configura come una cessione di beni che, come tale, prevede l’applicazione ad ogni prodotto della rispettiva aliquota IVA.

Nel caso di somministrazione in un pubblico esercizio, oltre all’attività di “consegna” delle pietanze o delle bevande, vi è un’attività di predisposizione ed allestimento dei tavoli a cui possono aggiungersi ulteriori servizi. Questa attività, spesso ridotta ai minimi termini, a volte può risultare di difficile valutazione in confronto ad un servizio da asporto, ove magari il cliente consuma il prodotto immediatamente, senza però beneficiare di un servizio di ristorazione.

L’Agenzia delle Entrate, con il principio di diritto n. 9 del 2019, ha ribadito che ai fini dell’applicazione alle due diverse tipologie di operazione della corretta aliquota IVA, occorre fare una distinzione tra somministrazione di alimenti e bevande dalla cessione dei medesimi beni.

La somministrazione, inquadrata nell’ambito delle fattispecie assimilate alle prestazioni di servizi dall’articolo 3 del Decreto IVA, beneficia dell’aliquota agevolata al 10%. Le prestazioni di servizi sono caratterizzate dalla commistione di “prestazioni di dare” e “prestazioni di fare” (cfr. Ris. n. 103 del 2016).

Nella cessione da asporto o nella consegna a domicilio, invece, vi è esclusivamente la cessione del prodotto. Pertanto, la “cessione” dovrà scontare l’aliquota applicabile alla singola tipologia di bene alimentare venduto.

L’esercente per le cessioni documentate a mezzo corrispettivo, dovrà pertanto differenziare i prodotti ceduti tramite consegna a domicilio o asporto per i quali dovrà applicare le aliquote proprie dei singoli prodotti.

Nel caso in cui sia richiesta l’emissione della fattura, quest’ultima dovrà contenere le indicazioni previste dall’art. 21 del D.P.R. n. 633/1972, quindi anche la natura, la qualità e la quantità dei beni e la corrispondente aliquota IVA.

Una Ss agricola intende affittare alcuni terreni di proprietà e una porzione di fabbricato rurale. In merito a tale operazione, si chiede se i canoni di locazione siano da considerarsi esenti da IVA ex art. 10 comma 1, D.P.R. 633/72 e l’eventuale possibilità di considerare tali canoni come un pro rata di indetraibilità IVA (ex art. 19 D.P.R. 633/72). Inoltre si chiede se per detti canoni vada emessa fattura.

Affitto di fondi rustici e annessi fabbricati rurali  – disciplina IVA

 

 Ai sensi dell’art. 10, comma 1, punto 8) del D.P.R. n. 633/1972, sono esenti da imposta “le locazioni e gli affitti, relative cessioni, risoluzioni e proroghe, di terreni e aziende agricole, di aree diverse da quelle destinate a parcheggio di veicoli, per le quali gli strumenti urbanistici non prevedono la destinazione edificatoria, e di fabbricati, comprese le pertinenze, le scorte e in genere i beni mobili destinati durevolmente al servizio degli immobili locati e affittati…”.

 

Nel caso di specie, il fatto che nell’affitto di fondo rustico sia stata inclusa una porzione di un fabbricato rurale fa desumere che tale immobile sia pertinenziale e strumentale al fondo agricolo. Per tale ragione, si ritiene che la porzione di fabbricato rurale segua la disciplina del bene principale. Pertanto, riteniamo che per il canone previsto per l’affitto dei terreni e della porzione di fabbricato possa trovare applicazione l’art. 10, comma 1, punto 8) del D.P.R. n. 633/1972.

In base al tenore letterale della norma, l’esenzione riservata ai terreni è oggettivamente riconducibile alle caratteristiche dell’immobile affittato e non anche delle caratteristiche soggettive del cedente, risultando quindi ininfluente il fatto che il locatore soddisfi il presupposto soggettivo dell’IVA.

In particolare, il terreno, in base agli strumenti urbanistici, non deve avere destinazione edificatoria o essere destinato ad altre finalità diverse da quelle agricole.

 

L’articolo 21 del D.P.R. n. 633/1972, al punto 6 indica che le fatture devono essere emesse anche per le operazioni esenti di cui all’articolo 10, eccetto quelle indicate al n. 6), con l’annotazione “operazione esente”.

Si ritiene pertanto che, se il canone d’affitto è percepito da un soggetto passivo IVA, la fattura debba essere emessa.

 

È bene ricordare che, se la società desidera mantenere lo status di società agricola, tra i requisiti richiesti dall’art. 2 del D.Lgs. n. 99/2004 vi è l’esercizio esclusivo delle attività agricole previste dall’art. 2135 del Codice Civile. Tuttavia, come riportato nello stesso articolo, è disposto che “non costituiscono distrazione dall’esercizio esclusivo delle attività agricole la locazione, il comodato e l’affitto di fabbricati ad uso abitativo, nonché di terreni e di fabbricati ad uso strumentale alle attività agricole di cui all’articolo 2135 del c.c., sempreché i ricavi derivanti dalla locazione o dall’affitto siano marginali rispetto a quelli derivanti dall’esercizio dell’attività agricola esercitata. Il requisito della marginalità si considera soddisfatto qualora l’ammontare dei ricavi relativi alle locazioni e affitto dei beni non superi il 10 per cento dell’ammontare dei ricavi complessivi”.

 

Applicazione del pro-rata per operazioni attive esenti

 

L’articolo 19 del Decreto IVA, in tema di detrazione, dispone che i contribuenti che esercitano sia attività che danno luogo ad operazioni che conferiscono il diritto alla detrazione, sia attività che generano operazioni esenti ai sensi dell’art. 10, possono detrarre l’IVA sugli acquisti in misura proporzionale, applicando il c.d. pro-rata, secondo le modalità indicate nel successivo articolo 19-bis.

 

In sostanza, il calcolo della percentuale di detraibilità dell’IVA sugli acquisti si determina, con riferimento al medesimo anno, dal rapporto tra l’ammontare delle operazioni che danno diritto alla detrazione e lo stesso ammontare aumentato delle operazioni esenti.

 

Il comma 2 dell’art. 19-bis indica che nel suddetto calcolo non si tenga conto:

  • delle cessioni di beni ammortizzabili;
  • dei passaggi interni nel caso di esercizio di più di un’attività con contabilità separate;
  • delle operazioni di cui all’articolo 2, terzo comma, lettere a), b), d) e f) (cessioni di denaro o crediti in denaro; cessioni e i conferimenti in società o altri enti, compresi i consorzi e le associazioni o altre organizzazioni, che hanno per oggetto aziende o rami di azienda; cessioni di campioni gratuiti di modico valore appositamente contrassegnati; passaggi di beni in dipendenza di fusioni, scissioni, o trasformazioni di società);
  • delle cessioni che hanno per oggetto beni acquistati o importati senza il diritto alla detrazione totale della relativa imposta riconducibili all’articolo 10, comma 1, numero 27-quinquies;
  • delle operazioni esenti indicate ai numeri da 1 a 9 del predetto articolo 10 del D.P.R. 633/1972, se non formano oggetto dell’attività propria del soggetto passivo o siano accessorie alle operazioni imponibili. Ferma restando l’indetraibilità dell’imposta relativa ai beni e servizi utilizzati esclusivamente per effettuare queste ultime operazioni.

 

Con riferimento a quest’ultima precisazione, indicata al comma 2 dell’art. 19-bis, riteniamo si possa senz’altro attribuire il carattere di accessorietà nel caso di affitto di fondi rustici con annessi fabbricati rurali, posti in essere dalle società agricole di cui all’articolo 2 del D.Lgs. n. 99/2004.

 

Viceversa, qualora tali attività perdano il requisito di accessorietà richiamato dall’art. 19-bis, i corrispondenti imponibili dovranno concorrere annualmente al calcolo della percentuale di detrazione (pro-rata).

 

Una società agricola semplice, con terreni, allevamento, mattatoio e laboratorio di sezionamento carni, può produrre cibi cotti (es. prosciutto cotto, wurstel, trippa ecc.) senza perdere il titolo di imprenditore agricolo?

Ai fini fiscali, come noto, possono rientrare all’interno del reddito agrario le attività di cui al terzo comma dell’art. 2135 c.c., svolte nei limiti di cui all’art. 32 del TUIR.
In sostanza, rientrano nella tassazione su base catastale tutte le attività e i beni ricompresi all’interno del D.M. 13 febbraio 2015, che definisce, appunto, tutti i beni che possono essere oggetto delle attività connesse ai sensi dell’art. 32 del TUIR.

Tra le voci presenti nell’allegato del richiamato Decreto, quelle che potrebbero essere inerenti al caso in esame sono le seguenti:

  • Produzione di carne essiccata, salata o affumicata, salsicce e salami (ex 10.13.0);
  • Produzioni di carni e prodotti della loro macellazione (10.11.0 – 10.12.0).

Per quanto concerne la priva voce precisiamo che la presenza della locuzione “ex” davanti al codice ATECO fa sì che l’elencazione dei prodotti contenuti nel Decreto debba considerarsi tassativa, conseguentemente non è possibile una estensione della voce a tutte le attività ricomprese all’interno del codice ATECO nominato.
I prodotti citati nel quesito non rientrano fra quelli elencati in tale voce, conseguentemente occorre verificare la possibilità di inserirli all’interno della seconda elencazione: Produzioni di carni e prodotti della loro macellazione (10.11.0 – 10.12.0);

A tal proposito, occorre evidenziare che tutti i prodotti elencati nel quesito sono oggetto di un’ulteriore fase di lavorazione, oltre a quella della mera macellazione: la cottura. Alla luce di ciò è necessario analizzare le indicazioni fornite dall’Agenzia in merito all’inquadramento fiscale dei prodotti derivanti dalla manipolazione e trasformazione dei beni prodotti dell’attività agricola principale (in questo caso l’allevamento).
Nella Circolare di prassi sopra citata (Circ. 44/E/2004) si legge che, per poter essere considerata come connessa, l’attività di manipolazione o trasformazione deve avere ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dall’attività agricola principale (coltivazione o allevamento).
Inoltre, per poter rientrare nel reddito agrario, le attività di trasformazione devono essere svolte usualmente nell’ambito dell’attività agricola e devono consistere in una prima fase di lavorazione.
I prodotti dell’attività di trasformazione, poi, possono essere inquadrati fiscalmente in tre modi:

  • rientrano nel reddito agrario i prodotti che sono citati nell’elenco contenuto nel D.M. 13 febbraio 2015;
  •  possono essere tassati forfettariamente (15% dei corrispettivi registrati ai fini IVA) i prodotti agricoli che hanno subito un solo processo di trasformazione ma che non rientrano nell’elenco del D.M. 13 febbraio 2015;
  •  vengono tassati a costi e ricavi i prodotti agricoli che hanno subito più processi di trasformazione o processi di trasformazione industriale.

Per quanto riguarda i “cotti”, in linea generale, si ritiene gli stessi debbano essere considerati come derivanti da un’ulteriore attività di lavorazione di quei prodotti già ricompresi nel decreto: Produzioni di carni e prodotti della loro macellazione. Pertanto, riteniamo che i wurstel, la trippa, il prosciutto cotto (così come tutti i prodotti cotti o bolliti) debbano essere considerati prodotti al di fuori della disciplina fiscale agricola e il reddito vada determinato analiticamente a costi e ricavi.
In conclusione, si ritiene che, sotto il profilo fiscale, le attività di produzione del prosciutto cotto, di wurstel e di trippa, nonché la produzione di qualsiasi bene sottoposto a cottura, essendo prodotti esclusi dal D.M. 13 febbraio 2015 ed essendo derivanti da più processi di lavorazione, non possa rientrare nel reddito agrario.
Per quanto concerne la qualifica di IAP, ai sensi di quanto previsto dal D.Lgs. 99/2004, le società di persone (Ss, Snc e Sas) possono assumere tale qualifica al sussistere delle seguenti condizioni:

  • devono avere quale oggetto sociale l’esercizio esclusivo delle attività agricole di cui all’art. 2135 c.c.;
  • nella denominazione sociale deve essere inserita l’indicazione di “società agricola”;
  • almeno un socio deve avere la qualifica di IAP.

Nella trattazione in esame ci concentreremo sui limiti dell’esercizio esclusivo delle attività agricole di cui all’art. 2135 c.c., requisito che, come detto, è essenziale per il mantenimento della qualifica di IAP.
In dottrina ci si è spesso interrogati se la vendita di prodotti agricoli di terzi in misura non prevalente possa inficiare o meno tale requisito. È pur vero, infatti, che il testo dell’art. 2315 c.c. sembra consentire tale possibilità, ma la più autorevole dottrina agrarista ritiene che il termine “commercializzazione” sia riferibile esclusivamente ai prodotti trasformati/manipolati, nel rispetto del requisito della prevalenza, dovendosi escludere dall’ambito applicativo dell’art. 2135 la mera commercializzazione dei prodotti agricoli di terzi.
Sul punto non esistono chiarimenti ufficiali, ma la nostra linea interpretativa è quella di far rientrare nell’ambito dell’art. 2135 c.c. i prodotti acquistati da terzi e rivenduti direttamente, purché gli stessi rientrino nell’ambito della disciplina della vendita diretta.
L’art. 4 del D.Lgs. n. 228/2001 prevede che gli imprenditori agricoli, singoli o associati, iscritti nel registro delle imprese, possano vendere direttamente al dettaglio, in tutto il territorio della Repubblica, i prodotti provenienti in misura prevalente dalle rispettive aziende, osservate le disposizioni vigenti in materia di igiene e sanità.
Ai fini della vendita diretta, gli unici limiti indicati nel D.Lgs. 228/2001 all’art. 4 sono:

  • prevalenza dei prodotti propri rispetto a quelli di terzi (comma 1);
  • inoltre, nel caso di cessione di prodotti di terzi:
    • limite dei ricavi provenienti dalla rivendita fissato in 160.000 euro per le imprese agricole individuali e 4 milioni di euro per le società (comma 8);
    • la cessione di prodotti agricoli e alimentari di altri comparti agronomici è ammessa a condizione che tali prodotti siano acquistati da altri imprenditori agricoli (comma 11-bis).

In buona sostanza, si ritiene che la mera rivendita di prodotti agricoli di terzi non faccia perdere il requisito dell’esercizio esclusivo delle attività agricole, quindi la qualifica di IAP, solo nell’ipotesi in cui detti beni vengano rivenduti nell’ambito della vendita diretta. Un’eventuale commercializzazione all’ingrosso di prodotti di terzi determinerebbe la perdita dell’esercizio esclusivo delle attività agricole di cui all’art. 2135 c.c.
Per quanto concerne le ripercussioni sulla qualifica di IAP della vendita di prodotti cotti, riteniamo che non debba destare problemi la loro commercializzazione nell’ambito della vendita diretta, poiché il ministero ha espressamente ammesso la vendita del “ragù”.¹

Sul punto, le criticità maggiori si evidenziano per la commercializzazione all’ingrosso, poiché non può essere applicata la copertura dell’art. 4 del D.Lgs. 228/2001. Tuttavia, in questa ipotesi riteniamo possibile adottare una soluzione maggiormente permissiva rispetto a quella fiscale. Infatti, appurato che la commercializzazione di wurstel, trippa e prosciutto cotto genera ricavi tassabili (ex art. 56 TUIR), si ritiene che tali operazioni, se effettuate nel rispetto del requisito della prevalenza, non possano pregiudicare il requisito dell’esercizio esclusivo delle attività agricole di cui all’art. 2135 c.c., necessario per il mantenimento della qualifica di IAP.
Va segnalato che la materia trattata è particolarmente delicata e vi può essere il rischio concreto che la Regione o il Comune non condividano l’interpretazione offerta.

Suggeriamo pertanto di presentare formale richiesta alla Regione, illustrando nel dettaglio l’attività che si intende svolgere nonché i prodotti trasformati che si intendono produrre e commercializzare, chiedendo se tale attività sia ammessa ai fini della vendita diretta e, conseguentemente, conforme ai fini del requisito di esercizio esclusivo delle attività agricole richiesto dal D.Lgs. n. 99/2004.


[¹] Tale interpretazione trova conforto nell’orientamento espresso dal MISE nella risoluzione n. 63083 del 16 aprile 2013. In tale documento il Ministero ha affermato che i produttori agricoli sono legittimati alla possibilità di preparare, cuocere, confezionare e vendere direttamente in azienda ragù e spezzatino ottenuti con la carne del proprio bestiame, precisando inoltre che tali attività devono essere svolte nel rispetto dei limiti previsti dalla legge (prevalenza, volume d’affari e autorizzazione sanitaria).

La nostra società a breve aprirà una struttura nella quale sarà svolta l’attività di balneazione in vasche termali. Quale sarebbe l’aliquota IVA applicabile al servizio di balneazione?

La fornitura del servizio di balneazione in vasca o in piscina negli impianti sportivi, in genere, è soggetta a IVA ad aliquota ordinaria del 22%.

Tuttavia, la balneoterapia in acque termali rappresenta una cura e come tale potrebbe beneficiare dell’esenzione IVA al pari di altre prestazioni terapeutiche.

Lo stesso concetto di salute è mutato nel tempo. L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce il concetto di salute come “uno stato di totale benessere fisico, mentale e sociale” e non semplicemente “assenza di malattie o infermità”.

Ciò potrebbe far pensare che un’attività sportiva o la balneazione in una vasca termale, essendo propedeutica al mantenimento o al raggiungimento del benessere psico-fisico, possa essere definita una “cura”.

Nel caso di vasche o piscine alimentate con acqua termale, affinché si possa ipotizzare l’applicazione dell’art. 10, punto 19), del D.P.R. n. 633/1972, occorre che l’attività rappresenti una prestazione terapeutica resa da uno stabilimento termale.

Pertanto, l’applicazione dell’esenzione dell’IVA necessita:

  • del riconoscimento da parte del Ministero della Salute delle proprietà terapeutiche dell’acqua utilizzata per la balneoterapia;
  • che la struttura sia riconosciuta quale stabilimento termale, pertanto disponga delle autorizzazioni, ministeriali e regionali, di cui alla Legge 323 del 2000.

Se la prestazione è resa presso una struttura avente i suddetti requisiti, riteniamo non sia necessaria la prescrizione medica per poter applicare l’esenzione ai sensi dall’art. 10.

Tale orientamento risulta confermato dalla Risposta n. 5-01702 del 05 giugno 2019 della Camera dei Deputati in cui è stato ribadito che “secondo la normativa di settore di cui all’articolo 3 della legge 24 ottobre 2000, n. 323, il carattere curativo della prestazione termale è presunto quando i trattamenti si fondano sull’utilizzo di acque termali o loro derivati e sempre che siano erogate dagli stabilimenti termali come definiti dalla normativa di settore. Ne discende che tutte le prestazioni rese dallo stabilimento, riconosciute come tali dalla normativa di settore termale, tramite l’utilizzo di acque termali e loro derivati devono essere ricondotte nell’ambito di applicazione dell’articolo 10, n. 19 del decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972.

Naturalmente le altre prestazioni eventualmente rese (es. trattamenti estetici, messa a disposizione di attrezzature sportive) debbono essere assoggettate ad IVA con applicazione della corrispondente aliquota.

Le conclusioni sopra richiamate sono coerenti con la posizione della Corte di giustizia la quale ha precisato che le finalità curative che giustificano il trattamento di esenzione possono attenere anche alla prevenzione di uno stato di malattia ovvero al miglioramento della qualità della vita del soggetto che richiede le prestazioni”.

Si chiedono informazioni in merito al credito d’imposta per l’anno 2020 per l’acquisto di beni strumentali nuovi di fabbrica, a seguito della Legge di Bilancio 2020. Nello specifico, vorrei avere maggiori informazioni sulla possibilità, per un’azienda agricola, di usufruire di tale credito.

Riferimenti normativi

La disposizione con cui è stato introdotto il nuovo credito d’imposta per investimenti in nuovi beni strumentali è contenuta all’art. 1, nei commi da 184 a 197, della Legge 160/2019.

Possono beneficiare dell’incentivo le imprese che effettuano investimenti in beni strumentali nuovi (materiali e immateriali) destinati a strutture produttive ubicate nel territorio dello Stato.

Requisiti soggettivi

La norma introdotta prevede che possono accedere al credito d’imposta tutte le imprese residenti nel territorio dello Stato, incluse le stabili organizzazioni di soggetti non residenti indipendentemente da:

  • forma giuridica;
  • settore economico di appartenenza;
  • dimensione;
  • regime fiscale di determinazione del reddito.

In base a tale definizione se ne ricava che possono accedere a tale agevolazione, indipendentemente dalla forma giuridica (ditte individuali, società di persone, società di capitali, cooperative, ecc.), i soggetti esercenti attività agricola ai sensi dell’art. 2135 c.c., a prescindere dalla modalità di determinazione del reddito.

A titolo esemplificativo, tra i soggetti ammessi vi rientrano:

  • le ditte individuali e le società semplici che svolgono attività agricole e di allevamento e che determinano il proprio reddito ex art. 32 del TUIR (redditi fondiario);
  • le altre società di persone o di capitali, sia nel caso determino il loro reddito in maniera analitica (ex art. 55 TUIR) e sia nel caso in cui, ricorrendone i requisiti, abbiano optato per la determinazione catastale del reddito (comma 1093, Legge 296/2006);
  • i soggetti che esercitano le attività agricole connesse (agriturismo, prestazioni di servizi, agroenergie, fotovoltaico, enoturismo, oleoturismo, ecc.) indipendentemente dal regime fiscale adottato.
  • i contribuenti in regime forfetario, ex Legge n. 190/2014, e gli altri soggetti che determinano il reddito con altri criteri forfettari o con l’applicazione di regimi d’imposta sostitutivi. Ne sono un esempio gli imprenditori agricoli che svolgono attività di agriturismo, enoturismo ed oleoturismo che adottano il regime fiscale disposto dall’art. 5, comma 1, Legge n. 413/1991.

Il comma 194 precisa, però, che il credito d’imposta per gli investimenti in beni generici (comma 188) si applica alle stesse condizioni e negli stessi limiti anche agli investimenti effettuati dagli esercenti arti e professioni.


In estrema sintesi, dal tenore letterale della norma, potranno accedere al credito tutte le imprese e, con riferimento ai soli investimenti previsti dal comma 188, anche gli artigiani ed i professionisti.

Inoltre, la norma non prevede l’esclusione delle attività neocostituite.


Casi particolari

Sulla base dei chiarimenti offerti dall’Agenzia delle Entrate con le Circolari n. 5/E/2015 e n. 4/E/2017, in relazione a precedenti agevolazioni, la nuova disciplina del credito d’imposta per gli investimenti in beni strumentali nuovi dovrebbe essere fruibile anche dagli enti non commerciali, con riferimento all’attività commerciale eventualmente esercitata.

L’Agenzia delle Entrate, nella Circolare 4/E/2017, aveva inoltre chiarito che, nell’ipotesi di investimenti effettuati da imprese aderenti ad un contratto di rete, occorre distinguere a seconda che si tratti di “rete contratto” o di “rete soggetto”. Tali principi dovrebbero applicarsi anche all’attribuzione dei costi ai fini dell’accesso al credito d’imposta.

Per le reti contratto, prive di autonoma soggettività giuridica, si possono verificare due ipotesi:

  • l’investimento viene effettuato dall’organo comune che agisce in veste di mandatario con rappresentanza: in tal caso, l’acquisto produce la diretta imputazione dell’operazione ai singoli partecipanti, traducendosi nell’obbligo del fornitore di fatturare a questi ultimi, per la parte di prezzo ad essi imputabile, l’operazione passiva posta in essere dall’organo comune;
  • l’investimento viene effettuato dalla singola impresa o dall’ “impresa capofila” che opera senza rappresentanza: in tal caso, l’acquisto non comporta alcun effetto diretto sulla sfera giuridica delle altre imprese partecipanti al contratto e la singola impresa, o l’eventuale “capofila”, dovrà “ribaltare” il costo ai partecipanti per conto dei quali ha agito, emettendo fattura per la quota parte del prezzo riferibile alle altre imprese.

Si ritiene che, anche per il nuovo credito d’imposta, i costi concernenti investimenti in beni materiali strumentali nuovi, fatturati o “ribaltati” alle singole imprese retiste, possano consentire a queste ultime l’accesso all’incentivo.

Invece, nel caso di “rete soggetto” dotata di un proprio fondo patrimoniale e di autonoma soggettività giuridica, gli atti posti in essere in esecuzione del programma comune di rete producono i loro effetti direttamente in capo alla “rete soggetto”. In tale ipotesi, l’incentivo è azionato direttamente dalla Rete.

La Circolare 4/E/2017 aveva inoltre precisato che gli investimenti agevolabili, relativi ad imprese condotte in affitto o in usufrutto, sono da computare all’affittuario o all’usufruttuario in quanto su detti soggetti incombe l’onere di mantenere in efficienza gli impianti e gli altri beni strumentali. Qualora, invece, il contratto preveda, in deroga all’art. 2561 c.c., che l’onere di conservazione in efficienza dei predetti beni spetti al concedente, anche il relativo costo dovrà essere a lui imputato.

L’incentivo proposto sotto forma di credito d’imposta risulta particolarmente vantaggioso per le cooperative a mutualità prevalente in quanto, ai sensi dell’art. 12, L. n. 904/1977, è previsto che non siano tassate le somme destinate alle riserve indivisibili, a condizione che sia preclusa la possibilità di distribuirle tra i soci sotto qualsiasi forma, anche all’atto del suo scioglimento.

Inoltre, per le cooperative agricole, in base all’art. 10 del D.P.R. n. 601/1973, si applica l’esenzione ai fini delle imposte sui redditi per:

  • i redditi conseguiti dalle cooperative della piccola pesca e dai loro consorzi;
  • i redditi conseguiti dalle cooperative agricole e loro consorzi mediante l’allevamento di animali con mangimi ottenuti per almeno 1/4 dai terreni dei soci e mediante la manipolazione, conservazione, valorizzazione, trasformazione e alienazione di prodotti conferiti prevalentemente dai soci.

Non vi è reddito imponibile nemmeno per le cooperative sociali di lavoro, nell’ipotesi in cui il costo del lavoro relativo ai soci sia superiore al 50% degli altri costi, esclusi quelli per materie prime e sussidiarie.

Per tali organismi cooperativi, il credito d’imposta per nuovi investimenti produce un credito da utilizzare in compensazione anche in assenza di reddito imponibile o significativamente ridotto.

Cause di esclusione

Dal punto di vista soggettivo, il comma 186 prevede l’esclusione per le imprese in stato di liquidazione volontaria, fallimento, liquidazione coatta amministrativa, concordato preventivo senza continuità aziendale e le altre procedure concorsuali, ovvero, che abbiano in corso un procedimento per la dichiarazione di una delle predette situazioni.

L’indicazione nella norma dello specifico riferimento alle procedure concorsuali con finalità liquidatorie permette l’accesso all’agevolazione, per quelle finalizzate al risanamento.

Sono altresì escluse le imprese destinatarie di sanzioni interdittive ai sensi dell’articolo 9, comma 2, del Decreto Legislativo 8 giugno 2001, n. 231.

La fruizione dell’incentivo è subordinata al rispetto delle normative sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, applicabili in ciascun settore, e al corretto adempimento degli obblighi di versamento dei contributi previdenziali e assistenziali a favore dei lavoratori.

Le società a responsabilità limitata e le cooperative erano tenute, entro il 16 dicembre 2019, alla convocazione dell’assemblea per la nomina dell’organo di controllo o del revisore, qualora avessero superato, nel corso degli esercizi 2017 e 2018, uno dei nuovi parametri dell’art. 2477 comma 2 lettera c) c.c. Nel caso di società o cooperative che hanno esercizi infrannuali, quali esercizi bisogna prendere in considerazione? Posto che la condizione per la nomina dell’organo di controllo o del revisore è il superamento di uno dei tre limiti per due esercizi consecutivi, il superamento deve riguardare lo stesso limite tutti e due gli anni? Oppure può riguardare un limite un anno e un altro limite il secondo anno?

L’articolo 379 del D.Lgs. n. 14/2019, in vigore dal 16 marzo 2019, ha modificato i requisiti previsti per la nomina dell’organo di controllo nelle Srl, e con esse le società cooperative, definiti dall’articolo 2477 del Codice Civile.

In base alla nuova formulazione dell’articolo 2477, la nomina dell’organo di controllo o del revisore è obbligatoria se la società:

  • è tenuta alla redazione del bilancio consolidato;
  • controlla una società obbligata alla revisione legale dei conti;
  • ha superato per due esercizi consecutivi almeno uno dei seguenti limiti:
    • totale dell’attivo dello stato patrimoniale superiore a 4 milioni di euro;
    • ricavi delle vendite e delle prestazioni superiore a 4 milioni di euro;
    • dipendenti occupati in media durante l’esercizio maggiore di 20 unità.

Il terzo comma dell’art. 379 del Codice della Crisi e dell’Insolvenza definisce i termini per provvedere alla nomina degli organi di controllo o del revisore ed a uniformare, qualora sia necessario, l’atto costitutivo e lo statuto alle nuove disposizioni.

Tale termine è indicato in nove mesi dalla data di entrata in vigore della predetta disposizione, pertanto entro il 16 dicembre 2019.

Nel caso in esame è stato segnalato che la cooperativa ha superato i seguenti limiti:

  • esercizio dal 1/7/2017 al 30/06/2018 presenta una media dei dipendenti occupati nell’esercizio maggiore di 20 unità;
  • esercizio dal 1/7/2018 al 30/06/2019 presenta dei ricavi delle vendite superiori a 4 milioni di euro.

Dal combinato disposto dalla lettera c) del secondo comma dell’articolo 2477 c.c., in cui si indica che l’obbligo della nomina delle predette figure decorre al superamento di almeno uno dei suddetti limiti per due esercizi consecutivi, e dall’ultimo periodo del terzo comma dell’art. 379, in cui è previsto che, in via transitoria in fase di prima applicazione della norma, le disposizioni di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 2477 c.c. si applicano con riguardo ai due esercizi antecedenti “la scadenza indicata nel primo comma” (16 dicembre 2019), riteniamo che nel caso di specie, il termine entro il quale occorreva procedere alla nomina fosse il 16 dicembre 2019.

La nomina dell’organo di controllo o del revisore unico deve essere comunicata al Registro delle imprese della Provincia in cui ha sede la società, entro 30 giorni dalla data dell’assemblea di nomina.

La Legge di Bilancio 2019 n. 145 all’articolo 1 comma 700 ha disposto che “i soggetti agricoli possono altresì vendere direttamente al dettaglio in tutto il territorio della Repubblica i prodotti agricoli e alimentari, appartenenti ad uno o più comparti agronomici diversi da quelli dei prodotti della propria azienda, purché direttamente acquistati da altri imprenditori agricoli. Il fatturato derivante dalla vendita dei prodotti provenienti dalle rispettive aziende deve essere prevalente rispetto al fatturato proveniente dal totale dei prodotti acquistati da altri imprenditori agricoli.“ L’azienda che rispetta tali limiti come deve trattare fiscalmente i prodotti acquistati da altri imprenditori agricoli e rivenduti? Trattandosi di una disposizione legislativa possono rientrare nei redditi catastali o attività connesse oppure vanno sempre trattati come attività commerciale non subendo gli stessi delle manipolazioni o lavorazioni?

La Legge 145/2018 nell’aver indicato che le imprese agricole possono vendere direttamente al dettaglio i prodotti agricoli e alimentari, appartenenti ad uno o più comparti agronomici diversi da quelli dei prodotti della propria azienda, “purché direttamente acquistati da altri imprenditori agricoli”, riteniamo abbia voluto fornire un chiarimento che nel tempo aveva visto diversi orientamenti.

Da un lato vi era chi sosteneva che l’impresa agricola poteva acquistare e rivendere a terzi entro i limiti previsti dalla norma qualsiasi prodotto (160 mila euro ditte individuali, e 4 milioni per le società), anche diverso dal proprio comparto agronomico. Dall’altro vi era chi sosteneva che comunque doveva esser mantenuta una coerenza tra l’attività agricola principale e ed i prodotti acquistati e rivenduti.

Ai fini fiscali l’acquisto di prodotti agricoli da terzi riteniamo non abbia mutato il proprio inquadramento.

In base all’attuale formulazione degli  articoli  32  e  56-bis  del  TUIR, sono rispettivamente soggetti a tassazione fondiaria o con applicazione di in regime forfettario i  redditi  prodotti  dagli  imprenditori  agricoli  nello  svolgimento  delle attività agricole, che derivano:

  • dalla coltivazione del fondo, del bosco o di allevamento di animali;
  • dalle attività connesse  di  manipolazione  e  trasformazione (eventualmente  accompagnate  da  attività  di  conservazione, commercializzazione  e  valorizzazione)  dei  prodotti  agricoli  ottenuti prevalentemente dal fondo, dal bosco o dall’allevamento stesso.

Come indicato nella Circolare 44/E del 2004, tali  disposizioni  si  applicano  anche  in  relazione  a  prodotti  agricoli acquistati  presso  terzi,  a  condizione  che  questi  ultimi  non  siano  comunque prevalenti rispetto ai prodotti propri.

Nella stessa circolare l’Agenzia precisa che a differenza del caso di manipolazione di propri prodotti, affinché persista una connessione in presenza di prodotti agricoli acquistati da terzi occorre che vi sia anche una  sostanziale  “manipolazione”  o “trasformazione”  dei  prodotti  agricoli.

La  semplice  conservazione, commercializzazione  e  valorizzazione, se svolte autonomamente, non può dar luogo ad attività connesse.

Nella circolare l’Agenzia spiega ulteriormente il concetto di “attività agricola connessa” illustrando il caso  del produttore di radicchio che acquista una parte di prodotto da terzi che, prima della commercializzazione, necessita operazioni di pulitura e confezionamento. Si tratta quindi di interventi che

determinano la trasformazione di un prodotto non commercializzabile in un prodotto acquistabile dal consumatore finale, pertanto si tratta di una manipolazione “notevole”.

A titolo esemplificativo, riteniamo che qualora un agricoltore che coltiva frutta proceda all’acquisto di formaggi da un’altra impresa agricola sarà indubbiamente ammesso dalla normativa della vendita diretta (art.4 D.Lgs.228/01) qualora rispetti i criteri di prevalenza ed i limiti di valore sopra espressi, ma dal punto di vista fiscale la rivendita del formaggio rappresenta un’attività commerciale a tutti gli effetti.

Pertanto, la commercializzazione del formaggio produce un reddito d’impresa determinato ai sensi dell’art. 56 del TUIR (ricavi-costi). Nell’esempio appena rappresentato non riteniamo che tale attività rientri nell’art. 32 e neppure nell’art. 56-bis del TUIR.

Un soggetto persona fisica, dotato della qualifica di IAP, può conferire contemporaneamente tale qualifica sia ad una SRL (in qualità di amministratore) che ad una società di persone (quale socio)?

Il D.Lgs. n. 99/2004 all’articolo 1 definisce la figura dell’imprenditore agricolo professionale. Si tratta di una qualifica molto importante che offre l’opportunità di accedere ad agevolazioni proprie del settore agricolo.

Il legislatore con la norma del 2004 ha esteso la platea dei soggetti qualificabili IAP, al contempo ha voluto anche fissare uno specifico perimetro al fine di limitare le possibilità di un accesso fittizio e indiscriminato ai benefici riservati ai soggetti che professionalmente e stabilmente svolgono in via principale attività agricole.

Ora, tra gli imprenditori agricoli professionali possono essere incluse le società di persone, cooperative e di capitali, anche a scopo consortile, qualora il loro statuto preveda quale oggetto sociale l’esercizio esclusivo delle attività agricole di cui all’ articolo 2135 del Codice civile e il possesso dei seguenti requisiti:

  • nel caso di società di persone qualora almeno un socio sia in possesso della qualifica di imprenditore agricolo professionale. Per le società in accomandita la qualifica si riferisce ai soci accomandatari;
  • nel caso di società di capitali o cooperative, quando almeno un amministratore che sia anche socio per le società cooperative sia in possesso della qualifica di imprenditore agricolo professionale

Il successivo comma 3-bis, art. 1 del D.Lgs. n. 99/2004, contiene una norma che è stata definita “antielusiva” in quanto limita la possibilità da parte degli imprenditori agricoli professionali, di apportare tale qualifica come amministratore, a una sola società.

Tale norma[1], che fin da subito la dottrina prevalente ha interpretato come rivolta alle società di capitali  o alle cooperative, ha visto però anche delle interpretazioni restrittive, basate sulla lettura del comma 3-bis decontestualizzato dalla norma e dall’intento del legislatore.

Tra gli orientamenti che hanno ritenuto la prescrizione del comma 3-bis estesa a tutte le forme societarie, oltre ad alcuni arresti della giurisprudenza, citiamo la circolare INPS n.48 del 2006 in cui viene indicato che “l’art. 1, co. 3 bis, del decreto novellato, stabilisce che ogni amministratore può apportare la qualifica di IAP ad una sola società. Tale limitazione deve intendersi riferita non solo alle società di capitali e alle società cooperative, ma anche alle società di persone nei casi in cui il socio IAP che attribuisce la qualifica sia anche amministratore”.

Riteniamo che l’interpretazione corretta della norma sia quella che il legislatore abbia voluto evitare un “mercato di amministratori IAP” al fine di concedere fittiziamente la qualifica alla società per la solo presenza di un soggetto qualificato.

Un primo orientamento favorevole al fatto che la norma fosse riservata alle sole società di capitali è stato offerto dalla Direzione Regionale delle Entrate dell’Emilia-Romagna  che, nella risposta n. 909-216/2006 ha chiarito espressamente che “il limite posto nell’articolo l, comma 3-bis, D. Lgs. n. 99 del 29 marzo 2004, riguardi esclusivamente la qualifica di IAP e le sole società di capitali. [….] In definitiva il signor S., coltivatore diretto iscritto nella relativa gestione previdenziale ed assistenziale e socio di tre diverse società agricole, favorirà con la propria qualifica, ai citati fini fiscali, tutte e tre le società di cui è socio, a prescindere dalla quota di partecipazione in ognuna”.

A differenza delle società di persone in cui la qualifica è apportata da un socio, nelle società di capitali, essendo la qualifica apportata dall’amministratore potrebbe verificarsi il caso che nessuno dei soci abbia la qualifica di agricoltore. Pertanto, solo nelle società di capitali si presenta il rischio di un abuso che potrebbe determinare l’accesso ad agevolazioni per il solo fatto di aver “fittiziamente” nominato un amministratore IAP, quindi solo per tale tipologia di società ha senso la limitazione espressa dal legislatore.

Ricordiamo inoltre che le responsabilità del socio nelle società di persone sono ben più estese di quelle dell’amministratore di una società di capitali. Pertanto, l’ipotesi di nomina di un amministratore IAP con l’unico scopo di attribuire la qualifica alla società di capitali è facilmente praticabile.

Sul tema è ritornato anche il MIPAAF con nota n.3064 del 23/03/2018 il quale ha confermato l’orientamento della DRE dell’Emilia-Romagna.

Nella nota, infatti, si legge che l’aggiunta del comma 3-bis (avvenuta nel 2005) deve ritenersi riferita esclusivamente alle società di capitali e non anche alle società di persone. Questo viene affermato sulla base di due distinti argomenti:

  • in primis, dal punto di vista strettamente letterale, il riferimento all’amministratore fa presupporre una volontà del legislatore di riferirsi alle sole società di capitali. Se avesse voluto applicare il divieto di attribuzione a più società anche alle società di persone, il legislatore avrebbe potuto richiamare anche la figura del socio. Il silenzio, quindi, fa presupporre una volontà di segno contrario;
  • secondariamente, anche la ratio della norma induce a pensare che il divieto di attribuzione della qualifica a più società riguardi solo le società di capitali. Infatti, la finalità della norma sembra quella di limitare il fenomeno degli IAP itineranti, ossia di quei soggetti che potrebbero essere pretestuosamente inseriti all’interno del Consiglio di Amministrazione delle società di capitali agricole al solo fine di ottenere la qualifica.

In conclusione, pertanto, riteniamo che si possa affermare che un imprenditore IAP è legittimato a conferire tale qualifica:

  • Come socio di società di persone, senza limitazione alcuna riguardo al numero di “apporti”;
  • Come amministratore di società di capitali, limitatamente a una sola società;

Conseguentemente riteniamo ammissibile che il soggetto che cede la qualifica possa farlo contemporaneamente come socio di una società di persone e come amministratore di una sola società di capitali.

[1] Art. 1, comma 3-bis, D.lgs.99/2004: “La qualifica di imprenditore agricolo professionale può essere apportata da parte dell’amministratore ad una sola società”.

Un’azienda vitivinicola dovrebbe esportare del vino in Islanda. È possibile etichettare le bottiglie in lingua italiana o sono previsti adempimenti particolari?

L’Islanda è un Paese avente accordi commerciali con l’Unione Europea.

Se non richiesto espressamente dal cliente/importatore le etichette in lingua italiana, a norma della regolamentazione italiana e dei regolamenti comunitari, possono andare bene. Se non già presente in etichetta sarebbe bene però riportare la presenza dei solfiti oltre che in lingua italiana, anche in inglese con la traduzione: “Contains Sulfites” o “Contains Sulphites”.

Sono titolare di un’azienda agricola che svolge, come attività principale, la coltivazione della vite. Capita di omaggiare ai clienti beni non di produzione dell’impresa, quali calici, spumantiere, ecc. Considerato il fatto che il prezzo unitario di questi oggetti è inferiore ai 50 euro, le fatture dei fornitori dai quali acquistiamo tali prodotti possono essere registrate con iva detraibile? Per prezzo unitario si intende il prezzo pagato per ogni singolo oggetto, quindi per ogni singolo calice o ogni singola spumantiera?

Nel caso prospettato riteniamo che i prodotti oggetto dell’omaggio ai clienti non rientrino tra i beni oggetto dell’attività e sulla base di quanto affermato, gli omaggi non rientrano in un accordo contrattuale.

In via generale, l’IVA corrisposta per gli acquisti dei beni omaggiati può essere detratta solo se gli stessi rientrano nel più ampio concetto di “spese di rappresentanza”. Stando a quanto disposto dall’art. 1 DM 19/11/2008 si considerano spese di rappresentanza le “erogazioni a titolo gratuito di beni e servizi, effettuate con finalità promozionali o di pubbliche relazioni…” e “il cui sostenimento risponda a criteri di ragionevolezza in funzione dell’obiettivo di generare, anche potenzialmente, benefici economici per l’impresa ovvero sia coerente con pratiche commerciali di settore”.

Pertanto, un bene non oggetto dell’attività di impresa, costituisce spese di rappresentanza se omaggiato ai clienti.

Per discriminare se il costo sostenuto permette la detrazione dell’IVA occorre fare riferimento al combinato disposto dell’art. 30 del D.Lgs. 175/2014 e dell’art. 2, comma 2, del DPR 633/1972, pertanto ne consegue che:

  • l’IVA sugli acquisti dei beni che costituiscono spese di rappresentanza il cui costo unitario è superiore a € 50 sarà indetraibile e la successiva cessione gratuita sarà irrilevante ai fini IVA (fuori campo IVA). Alla consegna dell’omaggio non è quindi richiesta l’emissione di un documento fiscale (fattura, ricevuta) ma è comunque consigliabile emettere DDT con causale “omaggio” per dimostrare l’inerenza della spesa.
  • l’IVA sugli acquisti dei beni che costituiscono spese di rappresentanza il cui costo unitario è inferiore a € 50 sarà invece detraibile e la successiva cessione gratuita non sarà considerata imponibile ai fini Iva.

Alla luce delle considerazioni sopra svolte, riteniamo che nel caso in esame per gli acquisti di omaggi di valore unitario inferiore a 50 Euro l’IVA risulterà detraibile, mentre la successiva cessione gratuita non sarà considerata imponibile.

È bene però precisare che con il termine “costo unitario” non si fa riferimento al singolo componente ma si intende il costo dell’intera confezione.

Pertanto, si ritiene che nel caso in cui l’omaggio offerto ai clienti sia, ad esempio, composto da un certo numero di calici e da una “spumantiera”, il costo unitario sarà dato dal costo di acquisto di tutti i componenti omaggiati. Ovviamente se tale costo risulterà nel suo complesso superiore a 50 Euro la relativa imposta sarà indetraibile e la successiva cessione gratuita sarà irrilevante ai fini IVA (fuori campo IVA).

Il rapporto di colonia prevede che siano ripartiti al 50%, tra il colono e il concedente, sia i prodotti che le spese sostenute. Si intende sapere se per l’acquisto delle materie prime e la vendita dei prodotti derivanti dalla coltivazione è necessario che il colono sia in possesso di Partita Iva. Inoltre, vorremmo sapere chi dichiara i fondi oggetto del rapporto di piccola colonia ai fini del fascicolo aziendale.

A seguito della riforma del 1982 riteniamo che il contratto di colonia sia nullo, in quanto ai sensi dell’art. 45 della L. 203/82 “È fatto comunque divieto di stipulare contratti di mezzadria, colonia parziaria, di compartecipazione agraria, esclusi quelli stagionali e quelli di soccida”.

Detto ciò, a nostro parere, le parti si devono accordare per la stipula di un nuovo contratto di affitto di fondo rustico che legittimi l’affittuario alla conduzione della terra e conseguentemente all’attribuzione del reddito agrario.

Ciò non toglie che, anche senza un titolo idoneo di conduzione (esiste fra l’altro il concetto di affitto di fondo rustico verbale), l’esercizio di un’attività di tipo imprenditoriale determini in ogni caso l’obbligo di dotarsi di idonea partita IVA.

Per quanto concerne il fascicolo aziendale riteniamo che la mancanza di un titolo idoneo alla conduzione sia causa ostativa per tale adempimento.

La comunione ereditaria con la quale gli eredi provvedono al proseguimento dell’attività agricola svolta dal de cuius può determinare il proprio reddito su base catastale?

Ai fini delle imposte sui redditi, la comunione ereditaria è assimilabile:

  • alla società in nome collettivo, se l’attività esercitata è di natura commerciale;
  • alla società semplice se vi è esercizio di attività non commerciale.

Nel caso in esame si desume che il de cuius fosse un imprenditore agricolo che determinava il proprio reddito su base catastale (art. 32 TUIR), non svolgendo pertanto alcuna attività commerciale.

Conseguentemente, si ritiene che la comunione ereditaria continui a determinare il reddito su base catastale.

Il rappresentante legale della comunione ereditaria dovrà comunicare agli eredi il prospetto riepilogativo nel quale dovranno essere indicati, oltre ai loro dati anagrafici anche la loro quota di reddito fondiario sulla base delle quote di legittima spettanti.

Una società in accomandita semplice, che esercita l’attività di allevamento, ha in corso un contratto di compartecipazione agraria con un’impresa agricola individuale per la gestione dell’attività di allevamento. Gli immobili in cui è svolta l’attività di allevamento sono della S.a.s. e l’imprenditore individuale apporta esclusivamente il proprio lavoro ripartendo gli accrescimenti. Il contratto è riqualificabile in contratto di soccida semplice?

Il contratto di compartecipazione agraria è un contratto agrario avente natura associativa, con il quale il concedente, che apporta la disponibilità del fondo ed effettua una o più operazioni colturali, e il compartecipante, che coltiva il terreno e apporta gli altri fattori produttivi, quali sementi, concimi, e simili, si uniscono al fine di svolgere una coltivazione esclusivamente stagionale.

Se le parti convengono di ripartire il prodotto in base alle rispettive quote di spettanza, ciascuno provvederà in proprio a commercializzarlo, emettendo regolare fattura di vendita. Si ricorda che la quota parte del prodotto viene attribuito alle parti a titolo originario; pertanto, i proventi derivanti dalla vendita di tali prodotti verranno assorbiti nella determinazione del reddito su base catastale ai sensi di quanto previsto dall’art. 32 del TUIR.

Se, invece, il prodotto viene rilevato integralmente da una delle parti, il prodotto sarà venduto dall’assegnatario, che poi provvederà a liquidare all’altra parte la quota di spettanza in danaro. In tal caso, l’operazione in danaro è esclusa dal campo di applicazione dell’imposta.

Affinché il contratto di compartecipazione possa essere validamente stipulato e produrre gli effetti voluti dalle parti riteniamo necessario rispettare alcuni importanti requisiti che qui di seguito sintetizziamo:

  • i contraenti devono essere entrambi imprenditori agricoli;
  • è necessario svolgere l’attività agricola anche in maniera autonoma, pertanto, il compartecipante, oltre a coltivare il fondo del concedente in forma associata, dovrà svolgere anche l’attività agricola in proprio e detenere terreni a titolo di proprietà e/o affitto.
  • l’oggetto del contratto deve riguardare una singola coltura stagionale e non, invece, la generica coltivazione di un determinato appezzamento di terreno; la coltura stagionale non può inoltre riguardare l’intera azienda del concedente.
  • la forma del contratto: nonostante non sia obbligatorio, è consigliato il contratto in forma scritta, sia a fini probatori sia per l’eventuale deposito presso gli uffici della pubblica amministrazione.
  • durata del contratto: non si deve fare riferimento all’annata agraria ma ad una parte del ciclo colturale. L’inizio del contratto coincide di solito con la messa a disposizione del terreno al compartecipante.
  • è necessario che entrambe le parti partecipino effettivamente alla coltivazione associata del fondo e la ripartizione del prodotto dovrà essere proporzionale all’effettivo apporto alla conduzione associata. Il concedente deve comunque, salvo patto contrario, sostenere le lavorazioni preliminari alla semina o trapianto (aratura, sistemazione del terreno e prima concimazione). Il compartecipante deve eseguire personalmente o per mezzo di contoterzisti tutte le operazioni colturali dalla consegna fino al raccolto.

Alla luce delle considerazioni sopra svolte è evidente che il contratto atipico di compartecipazione agraria si basa su di un presupposto fondamentale: la coltivazione di colture stagionali in forma associata. Tali caratteristiche, legate indissolubilmente alla coltivazione della terra, fanno sì che tale contratto non possa trovare applicazione nel caso di allevamento di animali. Infatti, l’allevamento di animali, seppur rientrante nell’ambito dell’art. 2135 c.c., non può di certo essere equiparato alla coltivazione di colture stagionali.

Ciò premesso nel caso in esame, sulla base anche della documentazione pervenuta, il contratto di compartecipazione appare del tutto illegittimo ed in caso di verifica potrebbe essere riqualificato alla stregua di un contratto di servizi o di lavoro subordinato.

Infatti, la finalità del contratto di soccida semplice consiste nell’associare colui che dispone del bestiame con colui che ha i mezzi necessari per l’allevamento stesso, in modo da creare una comunanza di interessi, di guadagni e di rischi, in vista del conseguimento di un unico fine che è costituito dal miglior rendimento del bestiame conferito.

Nel 2017 abbiamo ceduto un terreno agricolo a vigneto con due varietà: Pinot Grigio e Glera (non atta a prosecco). L’acquirente, essendo un soggetto con qualifica di IAP, ha pagato l’imposta di registro agevolata all’1%. In sede di stipula dell’atto notarile, era stata siglata tra le parti anche una convenzione privata secondo cui: “in riferimento all’atto di cessione del terreno a vigneto, nel caso il vigneto a Glera (decreto regionale Veneto ecc..) diventi rivendicabile, a Prosecco Doc Treviso sarà riconosciuta ulteriore cifra di € X”. Verificatasi quest’anno tale ultima circostanza, si chiede quale sia il giusto trattamento fiscale della cifra X percepita dal venditore del terreno.

Preliminarmente occorre evidenziare come la problematica in esame presenti rilevanti  profili  di  incertezza  interpretativa  legati  al  fatto  che  le  condizioni modificative  del  prezzo  di  vendita,  anziché  essere  inserite  nell’atto  di compravendita del fondo, sono state riportate in una ulteriore scrittura privata che,  seppur  chiaramente  collegata  all’atto  principale,  rappresenta indubbiamente un atto ulteriore rispetto a quello principale.

Una possibile soluzione al caso in esame potrebbe essere rappresentata da quanto previsto dall’art. 19 del D.P.R. 131/86, rubricato “Denuncia di eventi successivi alla registrazione”, infatti tale disposizione prevede quanto segue:

“L’avveramento della condizione sospensiva apposta ad un atto, l’esecuzione di tale atto prima dell’avveramento della condizione e il verificarsi di eventi che, a  norma  del  presente  testo  unico,  diano  luogo  ad  ulteriore  liquidazione  di imposta  devono  essere  denunciati  entro  venti  giorni,  a  cura  delle  parti contraenti o dei loro aventi causa e di coloro nel cui interesse è stata richiesta la registrazione, all’ufficio che ha registrato l’atto al quale si riferiscono.

  1. Il termine  di  cui  al  primo  comma  è  elevato  a  sessanta  giorni  se  l’evento dedotto  in  condizione  è  connesso  alla  nascita  o  alla  sopravvivenza  di  una persona.”.

Alla  luce  della  disposizione  in  esame  se,  successivamente  alla  registrazione dell’atto, si verifica un evento idoneo a determinare una ulteriore liquidazione di  imposta,  è  necessario  denunciarlo  entro  venti  giorni  decorrenti  dal momento della sua verificazione. In questo modo può essere rideterminata la base  imponibile  e  le  maggiori  somme  potranno  essere  assoggettate  al medesimo regime fiscale dell’atto principale.

Nel caso in esame, contestualmente all’atto di compravendita del terreno, è stata  stipulata  una  scrittura  privata  collegata  al  medesimo  atto,  in  base  alla quale,  al  verificarsi  di  una  determinata  condizione,  il  prezzo  di  vendita riportato nell’atto principale avrebbe subito un particolare aumento.

Riteniamo  che  il  verificarsi  della  predetta  condizione,  consistente nell’intervenuta “rivendicabilità” a prosecco del Vigneto Glera, sia in grado di concretizzare  l’ipotesi  contemplata  dal  richiamato  art.  19  del  D.P.R.  131/86, poiché  la  modifica  del  prezzo  di  vendita  successiva  all’atto  rappresenta  un evento in grado di dare origine ad un’ulteriore liquidazione dell’imposta.

Pertanto,  ai  fini  dell’applicabilità  della  disposizione  in  esame  sarebbe  stato  necessario  provvedere  alla registrazione della scrittura privata entro 20 giorni dal verificarsi della condizione.

Evidenziamo che l’interpretazione sopra offerta presenta alcune criticità legate al regime agevolato a cui è stato sottoposto  l’atto  e  al  fatto  che  le  condizioni  per  la  rideterminazione  del  prezzo  siano  state  previste  in  una scrittura privata separata dall’atto principale di compravendita.

Per  quanto  concerne  il  primo  punto,  l’Agenzia  potrebbe  considerare  non  applicabili  le  agevolazioni  PPC all’ulteriore  corrispettivo  liquidato  a  titolo  di  prezzo  dal  compratore  al  verificarsi  della  condizione.  Infatti, l’imposta di registro è notoriamente un’imposta d’atto e il regime agevolato è stato richiesto esclusivamente in relazione  al  corrispettivo  indicato  nell’atto  di  compravendita  principale.

Ciò  potrebbe  indurre  l’Agenzia  a considerare  non  applicabile  il  regime  agevolato  all’integrazione  di  prezzo,  assoggettando  la  somma  al pagamento dell’imposta di registro proporzionale nella misura del 15%.

In merito alla seconda problematica evidenziamo che l’indicazione delle condizioni per l’aumento di prezzo in una  scrittura  separata  rispetto  all’atto  principale  potrebbe  indurre  l’Ufficio  a  riqualificare  tale  corrispettivo nell’ambito dei redditi diversi ed, in particolare, come obbligazione di fare non fare permettere di cui all’art. 67, comma 1, lett. l) del D.P.R. 917/86. In questa ipotesi le somme percepite a titolo di aumento prezzo andrebbero a confluire nella base imponibile IRPEF del soggetto percettore e sarebbero assoggettate a tassazione diretta.

Un’ impresa agricola che svolge anche attività agrituristica può emettere al posto della ricevuta fiscale, limitatamente all’attività agrituristica, la fattura elettronica, e in caso di risposta affermativa l’invio della fattura deve essere immediato o la stessa può essere inviata entro 12 giorni? Se così fosse cosa si rilascia al cliente?

Il legislatore ha inteso agevolare gli esercenti le attività di commercio al minuto ed assimilate consentendo loro di non emettere fattura ma un documento semplificato ovvero lo scontrino fiscale o ricevuta fiscale.

Così l’art. 22 del D.P.R. n. 633/1972 indica che l’emissione della fattura non è obbligatoria, se non richiesta dal cliente al momento dell’effettuazione dell’operazione anche per le prestazioni alberghiere e la somministrazione di pasti e bevande.

La suddetta disposizione riteniamo debba essere coordinata con quanto disposto dall’art. 3 del D.P.R. n. 696/1996 che al punto 2) che recita così: “Il rilascio dello scontrino fiscale o della ricevuta fiscale non è obbligatorio nell’ipotesi in cui per la stessa operazione sia emessa la fattura di cui all’articolo 21, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633”.

Con l’articolo 11 del D.L. n. 119 del 2018, è stato modificato l’articolo 21 del decreto IVA. Ed è stato disposto che la fattura elettronica deve essere emessa entro dieci giorni dall’effettuazione dell’operazione determinata ai sensi dell’art. 6. Pertanto, nel caso di fornitura di servizi l’operazione si intende effettuata all’atto del pagamento del corrispettivo o nel momento in cui sono rese anche nell’ipotesi di cui all’art. 3. Comma 3 del Decreto IVA (tra cui la concessione di beni in locazione, affitto, noleggio e simili).

Con l’approvazione del D.L. 34/2019 i termini per la trasmissione della fattura elettronica sono stati ulteriormente ampliati, consentendo l’invio entro il 12° giorno dalla data di effettuazione dell’operazione. In tal caso comunque la data del documento dovrà riportare quella in cui l’operazione è stata effettuata.

Inoltre, l’imposta dovrà concorrere alla liquidazione nel periodo di competenza con riferimento alla data dell’operazione (non della data di trasmissione della fattura al SdI).

Riteniamo inoltre che al cliente debba essere rilasciata una quietanza di pagamento/estratto conto al fine di poter verificare l’esatta corrispondenza delle somme pagate nonché le proprie generalità per la successiva emissione e trasmissione della F.E. Copia di tale documento servirà per l’emissione della F.E. che dovrà essere inviata in formato cartaceo (o PDF via mail) al cliente privato. Inoltre, agevolerà l’attività di controllo in caso di verifica. Ciò, anche se non disposto dalla norma, riteniamo possa comunque agevolare l’attività amministrativa.

Un coadiuvante/collaboratore agricolo, iscritto all’INPS SCAU, che svolge attività all’interno di una società semplice agricola, acquista in proprio un terreno agricolo con i benefici della PPC ai sensi dell’art. 1, comma 705, Legge 145/2018. Si chiede se è possibile continuare a beneficiare dell’agevolazione PPC anche nel caso in cui, subito dopo l’acquisto, l’acquirente affitti il suddetto terreno alla stessa società semplice agricola di cui fa parte.

Il testo normativo in materia di Piccola Proprietà Contadina prevede espressamente che “I predetti soggetti decadono dalle agevolazioni se, prima che siano trascorsi cinque anni dalla stipula degli atti, alienano volontariamente i terreni ovvero cessano di coltivarli o di condurli direttamente. Sono fatte salve le disposizioni di cui all’articolo 11, commi 2 e 3, del Decreto Legislativo 18 maggio 2001, n. 228, nonché all’articolo 2 del Decreto Legislativo 29 marzo 2004, n. 99, e successive modificazioni.”

La norma, quindi, dispone la decadenza dall’agevolazione se, entro un quinquennio dall’acquisto, si verifica una delle seguenti condizioni:

  • viene alienato volontariamente il fondo;
  • viene meno la conduzione e/o la coltivazione diretta del fondo.

Tale disposizione deve essere combinata con l’art. 9 del D.Lgs. 228/2001 che prevede il mantenimento, per i soci di società di persone titolari della qualifica di IAP o coltivatore diretto, di tutti i benefici fiscali spettanti alle persone fisiche titolari delle stesse qualifiche.

Con l’introduzione del D.Lgs. 228/2001, volto ad incentivare le forme di coltivazione associata in agricoltura, il legislatore ha di fatto escluso la decadenza dalle agevolazioni PPC quando la coltivazione del fondo acquistato come imprenditore persona fisica prosegua da parte del coltivatore diretto (o IAP) sotto la veste di socio, prescrivendo che anche in questa specifica fattispecie continuano ad essere riconosciuti i diritti in favore delle persone in possesso delle predette qualifiche.

In buona sostanza, ai fini del godimento delle agevolazioni PPC è del tutto indifferente che la coltivazione avvenga nella diretta detenzione da parte della persona fisica o in qualità di socio di società di persone, qualunque sia la compagine che la compone.

Sul tema si è espressa anche la Cassazione che, con sentenza n. 1565/2016, ha definito che “In materia di agevolazioni concesse in favore della piccola proprietà contadina, non incorre in alcuna decadenza, ai sensi dell’art. 9 del D.Lgs. n. 228 del 2001, il coltivatore diretto che prosegua la coltivazione del fondo in veste di socio di nuova società di persone esercente attività agricola, restando indifferente che la coltivazione avvenga nella diretta detenzione di persona fisica o mediata dal socio, qualunque sia la compagine sociale, sicché non si applicano i limiti previsti dall’art. 11 del D.Lgs. n. 228 del 2001.”

Anche i Giudici di legittimità hanno quindi ritenuto applicabile nella fattispecie l’art. 9 del D.Lgs. 228/2001, in quanto ai fini dell’agevolazione ciò che rileva è:

  • che l’acquirente sia titolare dei requisiti soggettivi (IAP o CD);
  • che l’acquirente, una volta concesso il terreno agricolo in affitto, continui a condurre il fondo tramite la società (in qualità di socio di società di persone, qualunque sia la compagine che la compone).

Alla luce di quanto detto, fermo restando che il coltivatore diretto (o IAP) continui ad assicurare la diretta conduzione del fondo anche nella nuova veste di socio, si ritiene possibile attuare l’operazione da lei esposta senza decadere dalle agevolazioni PPC anche qualora la quota di partecipazione alla società semplice fosse minima.

Nel caso prospettato, pur se il soggetto è iscritto quale coadiuvante di uno dei soci della società semplice, non è a sua volta socio della società alla quale intende affittare il terreno. In tale ipotesi riteniamo che le disposizioni previste dal comma 705 della Legge 145/2018, che introducono un principio di equiparazione fiscale del coadiuvante familiare al coltivatore diretto,  non determinano alcuna novità alla definizione del presente caso.

La giurisprudenza, infatti, ha riconosciuto il mantenimento della conduzione al soggetto che dispone dei requisiti soggettivi previsti e che sia anche socio della società alla quale egli affitta i terreni acquistati con le agevolazioni PPC.

Nel caso prospettato, la conduzione del terreno sarebbe dimostrata dal fatto che in base alla denuncia contributiva del “capo famiglia”, il coadiuvante del nucleo familiare risulta conduttore degli stessi terreni acquistati con PPC, a fronte di un contratto di affitto intestato ad un terzo soggetto (la società semplice).

Tale condizione, in sede di un eventuale contenzioso, avrebbe quanto meno un esito incerto.