L’esenzione sui redditi dei terreni è davvero un vantaggio per gli agricoltori?

La protesta degli agricoltori dilaga in ogni Paese d’Europa.

La scintilla che l’ha provocata è la ribellione degli agricoltori tedeschi alla “Farm to Fork” e al “Green Deal” europeo, favorita dal piano del governo germanico di togliere le sovvenzioni sui carburanti per l’agricoltura.

Poi gli olandesi, i francesi e, infine, gli agricoltori italiani sono anch’essi scesi spontaneamente nelle piazze e nelle strade con i loro trattori per esigere che il costo di queste politiche non sia posto a carico delle imprese agricole, già fortemente provate dall’aumento dei costi delle materie prime senza che vi sia, dall’altra parte, una giusta remunerazione dei prodotti agricoli.

Le richieste sono state le più svariate e a volte non sempre coerenti l’una con l’altra, e ciò è comprensibile per la diversità delle agricolture nazionali e anche all’interno di ciascun Paese. Viene chiesta, tra l’altro, una redistribuzione equa della PAC e degli aiuti nazionali a favore delle piccole e medie aziende agricole, l’eliminazione dell’obbligo dei terreni a riposo, semplificazione amministrativa, riduzione degli oneri a carico degli agricoltori, regolazione dei prezzi dei fattori di produzione, condizioni di reciprocità socio-ambientale e contingenti tariffari alle importazioni da Paesi terzi, prezzo equo, divieto di vendite sottocosto da sottoporre a rigorosi controlli e sanzioni, sovranità alimentare.

Tuttavia, il vero imputato pare essere innanzitutto il “mercato”, sempre meno “comune” e sempre più globale; le protezioni si mostrano scarsamente efficaci e quand’anche messe in atto si rivelano più dannose che utili per l’economia. Quel mercato dei prodotti agroalimentari che vede nella GDO il potere forte, che comprime i prezzi all’origine sull’altare della “concorrenza”. E su questo punto si deve senz’altro osservare una scarsa efficacia degli accordi di filiera, delle organizzazioni dei produttori e, da ultimo, della normativa sulle pratiche commerciali sleali.

Alcuni dei vari movimenti di protesta in Italia hanno chiesto, tra le diverse rivendicazioni, il rinnovo dell’esenzione dall’imposta sul reddito dei redditi agrario e dominicale sui terreni, già riservata agli imprenditori agricoli professionali (IAP) e coltivatori diretti e soppressa dal 1° gennaio 2024 dall’ultima Legge di Bilancio.

Il Governo, non senza qualche resistenza, ha ritenuto di accoglierla per gli anni 2024 e 2025, limitando comunque l’esenzione totale fino a diecimila euro e al 50% per la fascia da diecimila a quindicimila euro, relativamente all’importo complessivo dei redditi agrario e dominicale rivalutati dell’azienda posseduta dall’IAP, coltivatori diretti e società semplici IAP. Sembra che rimangano escluse le Snc – Sas e Srl ancorchè in possesso della qualifica di IAP.

La concessione del Governo è stata vista, ingenuamente, come una vittoria da alcuni di questi movimenti, immaginando così di aver ottenuto da subito un cospicuo risparmio fiscale (o di tasse, come si usa dire solitamente).

Nulla di più illusorio e controproducente.

Uno studio effettuato da Consulenzaagricola.it su un campione di aziende condotte da IAP o da coltivatori diretti, di diversa estensione, orientamento colturale e collocazione territoriale, ha rivelato per tutte una sostanziale invarianza dell’imposizione fiscale sui terreni sia con esenzione che senza esenzione. E ciò per una semplice ragione: i redditi dominicale e agrario, ancorché rivalutati, difficilmente superano il valore degli oneri deducibili e detraibili (oneri previdenziali del titolare o dei soci, dei familiari, spese mediche, detrazioni per familiari, ecc.). Pertanto, l’esenzione, da una parte, non produce alcun sostanziale beneficio economico, mentre dall’altra ha precise ed evidenti controindicazioni.

Innanzitutto priva l’imprenditore della fonte reddituale tipica dell’impresa agricola, che ha natura forfettaria e quindi non si presta a contestazioni sulla base imponibile. Questo fatto costituisce un grande vantaggio riservato solo alle imprese agricole e a nessun’altra categoria imprenditoriale. In particolare, il reddito agrario è la struttura portante del regime fiscale agricolo, attorno al quale ruotano non solo le attività di coltivazione, ma pure gli allevamenti, la coltivazione dei vegetali sopra terra, le attività connesse di manipolazione e trasformazione dei prodotti agricoli, le agroenergie.

Ebbene, l’assenza di reddito rende vulnerabile l’agricoltore e i suoi familiari partecipi all’impresa, potendo gli uffici dell’amministrazione finanziaria chiedere, di volta in volta, la dimostrazione dell’esercizio dell’impresa, la qualifica professionale e i titoli e l’effettiva conduzione dei terreni oggetto di esenzione.

Non si deve trascurare, infatti, la circostanza che l’esenzione è un’agevolazione e come tale va sempre dimostrato il diritto ad usufruirne. Siccome l’accertamento può avvenire dopo anni, l’agricoltore è tenuto per ciascun periodo d’imposta in cui gode dell’esenzione o della riduzione del reddito a procurarsi la prova dell’esistenza del diritto al beneficio e a conservarla fino a che è spirato il termine per i controlli. Con la conseguenza che se tale prova non è data o è ritenuta inidonea, l’agricoltore sarà chiamato a versare l’imposta indebitamente non calcolata e non versata e non potrà più avvalersi delle spese a deduzione del reddito.

Senza poi considerare il tempo e gli oneri che comunque dovrà sostenere per difendere le proprie ragioni.

In conclusione, l’esenzione IRPEF dei terreni può rivelarsi per molti agricoltori una trappola, dalla quale si può evitare di cadere rinunciandovi e dichiarando il reddito agrario e dominicale per poi azzerarlo con le deduzioni e detrazioni concesse dalle norme fiscali.

Vi è poi da aggiungere, per concludere, che il riconoscimento dell’esenzione totale o parziale, come proposto dal Governo, influirà nel bilancio dello Stato negli anni 2025 e 2026. E questo dimostra ancor di più l’ingenuità di chi è convinto di aver ottenuto un beneficio immediato. Meglio avrebbe fatto a chiedere che le risorse fossero destinate ad altri interventi, come il potenziamento dei fondi contro le calamità naturali.