Il dilemma dell’allevatore

Il mondo agroalimentare, lo sappiamo, sta cambiando. Stanno cambiando le abitudini di consumo dei cittadini, stanno cambiando le modalità di fruizione dei pasti, sta cambiando l’attenzione che viene posta alle modalità di produzione del cibo.

La prima domanda che sorge spontanea, davanti al grande dilemma alimentare che si prospetta nei prossimi anni, è se il cambiamento ormai avviato sarà sufficientemente rapido per poter preservare gli attuali equilibri globali. Una variabile in gioco sarà la popolazione mondiale: nel 2050, dagli attuali 7,9 miliardi, sulla Terra, saremo quasi 10 miliardi; nel 2100, invece, saremo quasi 11 miliardi, anche se alcune stime affermano che il tasso di crescita sarà più basso di quello stimato.

Il più grosso nodo con cui il sistema agroalimentare dovrà però confrontarsi è quello relativo alla sostenibilità dei sistemi produttivi. Uno studio della FAO del 2019 ha evidenziato come il 40% dei cambiamenti climatici è causato dagli effetti dei processi di produzione del cibo.

Sul tema, da anni, scienziati ed esperti si stanno interrogando su come riuscire a far tornare i conti, tra un fabbisogno in aumento (a causa della crescita della popolazione mondiale) e la necessità di ridurre l’impatto ambientale delle produzioni agroalimentari. Nature, una delle più importanti riviste scientifiche del mondo, ha pubblicato uno studio secondo cui sarebbe possibile abbattere del 74% le emissioni di gas serra se si adottasse una dieta di tipo flexitariano, che prevederebbe il consumo del 75% in meno di carne di manzo, il 90% in meno di carne di maiale e la metà di uova e latte. A fronte di ciò, si dovrebbe triplicare il consumo di legumi e quadruplicare quello di semi e noci.

Tra sostenibilità ambientale, equilibri alimentari e scelte etiche, la sensazione è che molte cose dovranno cambiare nell’ambito dei sistemi di produzione e, in particolar modo, sembra che la zootecnia sia il comparto maggiormente a rischio.

Già è necessario evidenziare come i comportamenti di consumo dei cittadini vanno sempre più nella direzione di una riduzione delle porzioni di carne nella dieta: negli ultimi due anni, i consumi di carni, in particolare quelle rosse (bovini e suini), hanno subito una riduzione e, in base alle proiezioni, per il futuro non sembra si assisterà ad un cambiamento del trend, in quanto su tale tendenza incidono numerosi fattori che vanno da una maggiore attenzione sotto il profilo salutistico a scelte di tipo etico.

Inoltre, l’Europa, con la nuova strategia “A Farm to Fork”, ha già fatto capire chiaramente che intende incentivare le aziende che producono a basso livello di emissioni, mentre altrettanto chiaramente sta arrivando la risposta dei consumatori, che mettono sempre più attenzione all’origine del cibo che acquistano: una ricerca di Altroconsumo del 2020 ha evidenziato come più di tre cittadini su quattro (76%) subordinano le proprie scelte di acquisto all’impatto ambientale dei prodotti che trovano sugli scaffali.

Una cosa, prima di proseguire, va detta. Troppo spesso, quando si parla di agricoltura sostenibile, si fa riferimento a piccole aziende che producono prodotti di altissimo livello qualitativo, ma che sono caratterizzate da un’esigua forza produttiva. Realtà da imitare, sostenibili, ecocompatibili, certo, ma che sono portatori di modelli di produzione che, se anche replicati in maniera massiva, probabilmente non sarebbero sufficienti per rispondere al fabbisogno di una collettività ormai “tarata” sull’offerta smisurata del sistema agroindustriale.

Senza voler sposare tesi estremistiche, tuttavia, ritengo che l’intero comparto zootecnico debba iniziare ad interrogarsi su quale potrebbe essere il futuro e su quali siano le mosse da mettere in campo per evitare di finire superati dagli eventi.

Molto spesso, infatti, mi è capitato di sentire operatori del settore additare l’Europa e il Governo italiano di voler denigrare il comparto zootecnico, di volere il male di migliaia e migliaia di famiglie che lavorano con amore e con passione per produrre carni, latte, uova, prodotti fondamentali nel nostro sistema alimentare.

Semplicemente, penso che questo sia un momento storico in cui occorre abbracciare il cambiamento e cercare di farsi trovare pronti. Come hanno fatto tutte quelle aziende agricole che nell’ultimo anno hanno iniziato a lavorare online, sviluppando nuove reti di clienti e di contatti per collocare i propri prodotti sul mercato, nonostante la pandemia, nonostante le chiusure. Come hanno fatto quelle attività che si sono inventate qualcosa di nuovo per mantenere alto l’interesse e tenere vicine le persone.

Come più volte ho scritto su queste pagine, Darwin sosteneva che a sopravvivere non è la specie più forte, ma quella più capace di tutte ad adattarsi di fronte a un cambiamento. Ci attende un futuro nuovo, che sarà caratterizzato da paradigmi diversi, da nuovi problemi e da tematiche che solo fino a qualche anno fa non sarebbero state nemmeno concepibili.

Proprio per questo ritengo che gli operatori del settore zootecnico debbano ora interrogarsi su quale sia la strada da prendere. Se vale la pena continuare a correre, in una gara a chi produce di più che potrebbe presto venire bruscamente interrotta, o se forse è arrivato il momento di cambiare e di rivedere le proprie priorità e i valori a cui ispirare la propria attività, rischiando però di perdere una fetta di mercato e di guadagni.

Difficile dire oggi quale sia la giusta soluzione a questo dilemma e cosa succederà in un domani più o meno prossimo. Quello che è certo, però, è che, in questo momento, non fermarsi a riflettere su questi argomenti e fare finta di niente sarebbe davvero un errore madornale.