Gli incentivi per il settore agricolo sono aiuti o premi di consolazione?

L’attuale crisi economica e sanitaria, aggravata dagli effetti della guerra russo-ucraina, ha reso necessario l’intervento da parte degli Stati per sostenere imprese e consumi. Cosicché, a partire dal 2020 con l’avvento del COVID, anche nel nostro Paese si è assistito all’introduzione di aiuti diretti e indiretti al settore produttivo per creare reti di sicurezza e garantire adeguata liquidità alle imprese, mantenere l’occupazione e sostenere le famiglie.

Per questo motivo, oltre alle ordinarie politiche economiche, per il settore agricolo sono stati previsti incentivi quali, ad esempio, il Bando INAIL, il credito d’imposta 4.0, la Nuova Sabatini, il credito d’imposta per il Mezzogiorno, ecc.. Tali misure, tra di loro conviventi, sono state con il tempo rifinanziate e potenziate dalla Commissione Europea che è intervenuta con massimali di intervento ad hoc, distinti per settore, area di intervento e per tipologia.

Va detto che le misure di sostegno straordinarie per contrastare gli effetti della pandemia da COVID-19 e della crisi ucraina sull’economia prevedono, in molti casi, l’applicazione di cosiddetti regimi de minimis, che consentono agli Stati di sostenere alcuni settori tramite la concessione di aiuti entro massimali circoscritti, senza dover attendere l’autorizzazione da parte della Commissione, semplificando e velocizzando le procedure.

Insomma, ad oggi il paniere degli incentivi e delle misure introdotte a favore delle imprese agricole risulta ricco e a ben vedere sembrerebbe che gli agricoltori siano stati davvero investiti di una grande attenzione da parte dell’Unione Europea e dello Stato Italiano.

Tuttavia, il risvolto della medaglia non è di poco conto! Non bisogna dimenticare che ad ogni incentivo corrispondono le disposizioni regolamentari che disciplinano la fruizione dello stesso e, così come più volte è accaduto, non c’è mai davvero chiarezza sulla possibilità di utilizzo e di cumulo di tutte le misure introdotte.

Basti pensare a tutto il disordine generato dalla mancanza di un efficace coordinamento tra i vari incentivi e crediti di imposta che ha comportato, nei casi peggiori, la restituzione delle somme ricevute.

Il caso più comune è quello delle imprese che hanno usufruito di contributi o crediti di diversa natura, pensando erroneamente che gli stessi fossero cumulabili, che sono stati poi assoggettati a verifiche da parte degli Enti preposti ai controlli, i quali hanno dichiarato le somme percepite come “non spettanti”.

A quel punto le imprese si sono trovate nella perversa situazione di dover regolarizzare l’indebita percezione, restituendo spontaneamente le somme di cui avevano usufruito oltre che i relativi interessi ed eventuali sanzioni.

Altro caso ormai consueto è quello della restituzione degli Aiuti di Stato, in aggiunta ai relativi interessi, che sono stati percepiti oltre il limite dei massimali previsti dalla Commissione dell’Unione Europea.

Volendo fare un bilancio, pare proprio che a fronte di innumerevoli sostegni a favore dell’agricoltura vi siano forse provvedimenti poco chiari e completi che, spesso, mancano di quel coordinamento interno necessario al fine di permettere una sicura fruizione degli aiuti concessi.

La domanda, a questo punto, sorge spontanea: tutte queste misure immesse nel nostro ordinamento, mai davvero perfettamente coordinate e regolamentate, raffigurano davvero un aiuto per il settore agricolo oppure, duole dirlo, sono solo un piccolo premio di consolazione?

Che l’Italia fosse il Paese con la peggior burocrazia in Europa lo sapevamo, ma questa volta il problema non sono di certo i molteplici adempimenti gravanti sugli imprenditori. Pare piuttosto che non ci sia la volontà, da parte di chi studia le misure per il settore agricolo, di concedere incentivi che davvero rappresentino un valido aiuto a sostegno di chi opera nel settore. Spesso quello che manca è la strategia nelle misure di intervento. Le misure a “pioggia”, in parte giustificabili da un contesto inatteso e diffuso come quello della pandemia, non possono continuare ad esistere e nemmeno a rappresentare la fetta più ampia delle risorse destinate allo sviluppo economico e sociale del nostro Paese.

Ne sono un esempio lampante i due filoni di investimento introdotti dal PNRR, pensati come sostegno alla produzione di energia attraverso impianti fotovoltaici installati sui fabbricati e sui terreni agricoli: il Parco Agrisolare e l’Agrivoltaico.

Questi incentivi, che sulla carta potrebbero sembrare un valido sostegno alle aziende agricole italiane, non hanno riscosso un grande successo, tanto che già prima dell’entrata in vigore del PNRR le aziende italiane e le loro associazioni hanno mosso non poche lamentele.

In primis, con le condizioni previste dalla norma, nella sua attuale formulazione, sarebbe davvero difficile ipotizzare che vi siano aziende intenzionate a costruire un impianto di 500 Kilowatt, investendo centinaia di migliaia di euro, per vedersi finanziare solo la parte dell’impianto che garantisce l’autoconsumo senza poter valutare una progettualità futura.

Se, come la crisi ucraina ci sta insegnando, abbiamo bisogno di maggior autonomia energetica, preservando al contempo il suolo e l’ambiente, si sarebbero dovuti promuovere maggiormente gli investimenti in energie rinnovabili, ammettendo i progetti che prevedono la cessione dell’energia in rete a prezzi che, seppur significativamente aumentati, non garantiscono, altrimenti, la copertura dei costi dell’investimento e del successivo smaltimento dell’impianto quando non sarà più produttivo.

Alcuni operatori del settore scrivono che “sarebbe un po’ come incentivare l’acquisto di una Ferrari col vincolo di utilizzare al massimo 10 litri di benzina all’anno”. In sostanza, cosa se ne fa un’azienda agricola di un impianto da 500 Kw se non può vendere l’energia prodotta in eccesso? Se un’azienda fa un investimento ne valuta anche l’utilità futura ed è del tutto probabile che quello che oggi può essere considerato “surplus” di energia, domani possa non essere nemmeno sufficiente a garantire autoconsumo qualora sia imposta una graduale riconversione all’elettrico dei mezzi.

Le imprese agricole speravano che con l’attuazione del PNRR vi fosse davvero la possibilità di ricevere incentivi per ampliare la propria attività generando da subito nuove “entrate” e beneficiando nei prossimi anni di un risparmio in termini di approvvigionamento energetico. Ma così non è stato.

Insomma, appare chiaro che di tante misure pensate per gli agricoltori forse solo una minima parte costituisce davvero un valido sostegno al settore.

Forse è giunto il momento di valutare le strategie dell’Unione europea e rivederne, anche nell’ordinamento interno, le modalità di attuazione, domandandosi preventivamente fino a che punto tutte queste misure fungano da supporto alle aziende agricole o agli obiettivi prefissati.