23 Apr Il ruolo dell’agricoltura nei cambiamenti climatici
Che il riscaldamento globale del pianeta sia la causa dei cambiamenti climatici è un dato oramai scientificamente provato.
È del tutto plausibile, anche al netto di alcune teorie negazioniste, che a tale fenomeno abbia concorso e concorra in modo rilevante il complesso delle attività umane. L’origine antropica è la tesi che rispecchia l’attuale pensiero scientifico. D’altronde, l’immissione in atmosfera di miliardi di tonnellate di anidride carbonica nel corso dell’ultimo secolo non può non avere contribuito al cosiddetto effetto serra e alle conseguenze sul clima a cui oggi stiamo assistendo.
Con il Protocollo di Kyoto (1997) 175 Stati hanno convenuto sull’origine antropica dei cambiamenti climatici, impegnando i rispettivi popoli e le generazioni future a perseguire azioni concrete per ridurre drasticamente le emissioni di gas serra.
Con il Paris Climate Change Agreement (c.d. Accordo di Parigi) del 2016, i Paesi c.d. “sviluppati” hanno rinnovato il loro impegno per ridurre le cause dei cambiamenti climatici attuando politiche ed azioni di investimento verso un futuro a basso tenore di carbonio e climaticamente sostenibile, con l’obiettivo giuridicamente vincolante di mantenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto di 2 °C, ma di fare il possibile per tentare di non superare gli 1,5 gradi rispetto ai valori preindustriali.
I Paesi firmatari si sono impegnati a presentare piani d’azione in materia di clima al fine di ridurre le proprie emissioni. L’UE si è impegnata a ridurre le emissioni dell’UE entro il 2030 di almeno il 55 % rispetto ai livelli del 1990 come passo verso il raggiungimento della neutralità entro il 2050.
Gran parte della recente politica climatica dell’UE è il risultato del Green Deal europeo. Poiché il raggiungimento di un saldo netto di emissioni pari a zero richiede una profonda trasformazione dell’attuale modello economico, la politica climatica si estende a tutti i settori economici e incide, inevitabilmente, sui comportamenti umani.
Le misure più significative del Green Deal riguardano la promozione delle energie rinnovabili, il miglioramento dell’efficienza energetica, l’aumento degli assorbimenti di carbonio, la riforma ed espansione dello scambio di emissioni, i trasporti più rispettosi dell’ambiente, il sostegno alle persone nel passaggio a un’economia più verde.
Anche l’agricoltura è chiamata a dare il suo contributo alla riduzione delle emissioni, essendo “imputata” (a livello mondiale) di almeno un quinto della CO2 emessa in atmosfera nel periodo 2000-2010 (pari a circa 44 miliardi di tonnellate).
Tuttavia, se limitiamo l’indagine all’agricoltura europea, la stima del danno deve essere drasticamente ridotta, poiché le politiche europee sulla conservazione dell’ambiente e della biodiversità hanno impedito l’erosione di aree naturali e boschive a favore di quelle coltivate. È avvenuto, invece, il contrario, con la concessione di incentivi subordinati all’applicazione di pratiche agronomiche più rispettose dell’ambiente e con il ritiro di terre coltivate (set aside).
Deve essere anche riconsiderato al ribasso l’impatto della zootecnia, accusata di essere un’attività non virtuosa. Studi recenti hanno dimostrato, infatti, che il metano è un gas che ha un’emivita non superiore ai dodici anni e non di secoli, come invece l’anidride carbonica. È stata anche smontata la fake che vedrebbe il consumo di 15mila litri di acqua piovana per produrre 1 chilogrammo di carne: il 96% dell’acqua fa parte del ciclo della pioggia. Non si tratterebbe, dunque, di risorse idriche sottratte ad altre destinazioni.
Ma se l’agricoltura europea è coimputata minore nella produzione di gas serra è pure la maggiore vittima dei cambiamenti climatici, soprattutto quella mediterranea. Alluvioni, grandinate mai viste a memoria d’uomo, siccità, desertificazione di aree un tempo altamente produttive, invasione di cavallette e cimici, già oggi sono una realtà. Studi scientifici hanno poi ipotizzato che il climate change avrà ripercussioni maggiormente negative sulle produzioni agricole nelle aree del pianeta c.d. “temperate” (quindi in primis l’area mediterranea) per il proliferare degli insetti fitofagi. Con un aumento di 2 °C (limite stabilito dall’Accordo di Parigi), la stima delle perdite di produzione potrebbe raggiungere il 30% per il mais e il 46% per il grano.
Nessun altro settore economico subisce e subirà in futuro danni diretti dal climate change come il settore primario. E questo avrà conseguenze gravi sulla quantità e qualità del cibo e sulla nutrizione dell’umanità nel mondo. Perché la differenza sostanziale tra l’agricoltura e gli altri settori economici è che la prima non può diminuire la propria produzione, in termini di proteine alimentari. Secondo il Dipartimento per gli affari economici e sociali delle Nazioni Unite, nel 2050 la popolazione mondiale potrebbe raggiungere i 9,7 miliardi rispetto ai 7,5 di oggi.
Gli altri settori economici possono ridurre in modo significativo le emissioni adottando misure già possibili oggi. Ad esempio, convertendo gli impianti di produzione o consumo di energia, il parco macchine con motori elettrici, e così via. Le politiche economiche possono spingersi anche verso la riduzione dei consumi di beni inquinanti, come autoveicoli, aerei, caldaie, senza che ciò comporti, se ben attuate, una perdita di qualità della vita per i cittadini.
Per l’agricoltura queste misure non sono attuabili, se non in minima parte, perché l’energia che la sostiene è quella del sole, della pioggia e delle leggi della natura.
Questo non vuol dire che anche l’agricoltura non debba fare la sua parte, adottando misure che la rendano più sostenibile, in linea con gli obiettivi di riduzione delle emissioni. Tuttavia, la sostenibilità non può prescindere dal ruolo che la FAO le assegna, vale a dire un aumento del rendimento per rispondere alla domanda di cibo, che invece sta calando per colpa del riscaldamento globale.
Occorre quindi rispondere alla seguente domanda: fino a quanto è compatibile la riduzione delle emissioni, con l’adozione tecniche agricole virtuose, a fronte di un aumento dei rendimenti delle produzioni?
In termini economici la risposta più razionale e che la “sostenibilità” per l’agricoltura non può che essere un “saldo” tra il dare (pratiche virtuose) e l’avere (azioni pubbliche a difesa delle produzioni agricole). Investimenti nella ricerca, investimenti nella difesa del territorio dalle acque, investimenti per la raccolta e la distribuzione dell’acqua per un razionale utilizzo dell’irrigazione, sono solo alcune voci della contropartita che la collettività tutta deve mettere nel piatto della “sostenibilità”.
In tema di tecniche virtuose, un ruolo importante è stato assegnato alla “carbon farming”, cioè l’adozione da parte degli agricoltori di appropriate tecniche per sequestrare anidride carbonica nei terreni. Tema che è ampiamente trattato in questo numero della Rivista.
In attuazione del quadro legislativo unionale, anche l’Italia si è dotata di un proprio strumento normativo (D.L. n. 13/2023, articolo 45) allo scopo di valorizzare le pratiche di gestione agricole e forestali sostenibili, in grado di migliorare le capacità di assorbimento del carbonio atmosferico, aggiuntive rispetto a quelle prescritte dalla normativa unionale e nazionale in materia di conduzione delle superfici agricole e forestali.
A tal fine è stato istituito il Registro pubblico dei crediti di carbonio generati su base volontaria dal settore agroforestale nazionale; i crediti in questione sono utilizzabili nell’ambito di un mercato volontario nazionale. In sostanza, l’agricoltore che aggiunge, a quelle obbligatorie, pratiche virtuose volontarie, definite da apposite linee guida, potrà ottenere crediti che potrà a sua volta cedere ad altre imprese meno virtuose, ricavandone un beneficio economico.
Sebbene debba essere ben valutata da ciascun agricoltore l’effettivo rapporto costi/benefici nell’intraprendere la via della “carbon farming”, si tratta di una opportunità che può generare benefici economici, aventi natura di reddito agricolo in quanto, se ottenuti con l’esercizio effettivo di attività di coltivazione, allevamento o silvicoltura, sono da considerare tra le attività connesse ai sensi del 3° comma dell’art. 2135 del codice civile.
La legislazione fiscale, con il Decreto legislativo n. 192/2024, ha già recepito la carbon farming tra le attività agricole ai fini dell’imposta sul reddito. Ed è la prima volta che una disposizione fiscale favorevole al contribuente anticipa l‘avverarsi del correlato fatto economico. Questo è indubbiamente un segnale importante di quanto gli organi di governo confidino nel successo della carbon farming. Ma tutto dipenderà da cosa prescriveranno le disposizioni attuative.